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2018.15 Paolo VI – Il Papa della modernità

Paolo VI, Il Papa della modernità

Carlo Cardia

Il prossimo 14 ottobre il beato Paolo VI verrà dichiarato santo da Papa Francesco, insieme al vescovo Oscar Romero, al nostro don Francesco Spinelli e altri tre santi della carità.
Il presente Quaderno vuole essere un piccolo segno di riconoscenza della nostra Cattedrale a Papa Montini, anche nel ricordo della sua venuta a Cremona da arcivescovo di Milano, quando, invitato da mons. Bolognini a presiedere la celebrazione eucaristica nella solennità di S. Omobono il 13 novembre 1960, tenne un mirabile discorso, che presto ripubblicheremo.
Eletto il 21 giugno 1963, il card. Giovanni Battista Montini – che sceglie significativamente il nome di Paolo, l’apostolo missionario che annuncia il Vangelo ai pagani – era già tra i favoriti all’elezione prima del conclave: per la sua lunga esperienza diplomatica al servizio della Santa Sede, per la sua passione educativa tra i giovani della FUCI, per il suo singolare, apprezzato e innovativo ministero come arcivescovo di Milano, per la sua fama di uomo di Chiesa aperto alle problematiche del mondo moderno, per la sua fraterna amicizia con Giovanni XXIII, il quale, nel suo primo concistoro del 15 dicembre 1958 per la creazione dei nuovi cardinali, volle porre l’arcivescovo di Milano in testa all’elenco dei neoporporati: segno di una stima e di una predilezione verso Montini di cui Roncalli non aveva mai fatto mistero negli anni precedenti.

Il nuovo Papa, eletto nel pieno delle sue forze fisiche e soprattutto intellettuali e pastorali (non aveva ancora 66 anni al momento della sua elezione alla sede di Pietro), aveva davanti a sé un compito immane: la ripresa del Concilio Ecumenico, canonicamente interrotto dopo la morte di Giovanni XXIII, e soprattutto la successione al “Papa buono”. Era un’impresa ardua misurarsi con l’enorme popolarità di Papa Giovanni, da cui lo separava una diversità notevole: per stile, educazione familiare, timidezza, cultura, approccio ai problemi, senso acuto del proprio dovere che lo portava a una grande solitudine. Il nuovo Papa, ai primi di agosto del 1963, durante il ritiro spirituale a Castelgandolfo, scrive:

 “La mia posizione è unica, vale a dire che mi costituisce in un’estrema solitudine. Era già grande prima, ora è totale e tremenda. Dà le vertigini… Anche Gesù fu solo sulla Croce…Anzi, io devo accentuare questa solitudine: non devo aver paura, non devo cercare appoggio esteriore che mi esoneri dal mio dovere, che è quello di volere, di decidere, di assumere ogni responsabilità, di guidare gli altri… E soffrire solo… Io e Dio”.

C’è in queste parole la chiave di lettura più autentica non solo dell’intero pontificato di Paolo VI, ma dell’uomo e del cristiano Montini, della sua complessa e poliedrica personalità interiore, che riuscirà a “bucare” gli spiriti culturalmente più inquieti e accorti, ma non riuscirà – e di questo Paolo VI aveva una consapevolezza sofferta – ad entrare in un rapporto empatico con le folle. In questo, Paolo VI era più simile a Pio XII e avrà, sotto non pochi aspetti, una sorta di continuità nella figura mite e nella profondità intellettuale e spirituale di Benedetto XVI.

Il suo impegno più oneroso fu certamente di aver portato a compimento il Concilio Vaticano II. Non solo: ma di averlo in qualche modo “pilotato”, ossia ricondotto dentro ad un progetto che appariva ancora non sufficientemente maturato nella mente e nel cuore di Giovanni XXIII, il quale era convinto – come ormai le fonti documentarie concordano – di chiuderlo in pochi mesi mediante una approvazione, che Papa Giovanni pensava e sperava plebiscitaria, degli Schemi che erano stati predisposti nella fase preparatoria. Ma proprio nella prima sessione conciliare – vivente ancora Giovanni XXIII – i documenti preparatori sono stati letteralmente ribaltati, per cui l’assise conciliare, dopo la morte del “Papa buono”, si trovava in una sorte di “impasse” tale da pregiudicarne seriamente la continuazione. Il nuovo Papa avrebbe avuto il coraggio e la forza di dar seguito ad una intuizione di Papa Roncalli – da tutti ritenuta provvidenzialmente ispirata per il rinnovamento della Chiesa – ma che appariva impossibile da proseguire dopo la scomparsa di Papa Giovanni? La risposta migliore è del suo successore sulla cattedra di Milano, il card. Giovanni Colombo, che, alla ripresa del Concilio, ai fedeli ambrosiani così scrive: “Nei disegni della Provvidenza c’era voluta la candida saggezza e l’afflato mistico di Giovanni XXIII per trovare il coraggio di indire il Concilio e ci voleva la mente acuta, animatrice, sistematica, arditamente aperta di Paolo VI per continuarlo”.

 

La sua decisione di continuare il Concilio – che il nuovo Papa comunica nel suo primo radiomessaggio “all’intera famiglia umana”, il giorno dopo l’elezione, il 22 giugno 1963 – è rapida, chiara, forte. “La parte preminente del Nostro Pontificato – annuncia Paolo VI – sarà occupata dalla continuazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, al quale sono fissi gli occhi di tutti gli uomini di buona volontà. Questa sarà l’opera principale, per cui intendiamo spendere tutte le energie che il Signore Ci ha dato, perché la Chiesa Cattolica possa attrarre a sé tutti gli uomini con la maestà del suo organismo, con la giovinezza del suo spirito, col rinnovamento delle sue strutture, con la molteplicità delle sue forze”. E in quel primo discorso Paolo VI espone già i suoi progetti, ai quali rimarrà ostinatamente fedele: dopo la ripresa del Concilio, riformare il Codice di diritto canonico, perseguire un programma di giustizia sociale (vedi l’enciclica Populorum Progressio, del 1967, e la Lettera apostolica Octogesima adveniens, del 1971, in occasione dell’80.mo anniversario della Rerum Novarum di Leone XIII), assicurare la vera pace tra i popoli (sarà Paolo VI ad inaugurare le Giornate Mondiali della Pace nel giorno di Capodanno, a partire dal Primo Gennaio 1968: e da allora tutti i Papi ci hanno lasciato un Corpus significativo di Messaggi sul tema della pace), continuare l’opera di Giovanni XXIII per l’unità dei cristiani (saranno molteplici e coraggiosi i gesti ecumenici di Paolo VI, a partire dallo storico abbraccio con il Patriarca di Costantinopoli, Atenagoras I, il 5 gennaio 1964 a Gerusalemme). Non solo: il nuovo Papa, incontrando il 24 giugno il clero di Roma, aggiungerà fra i suoi intenti programmatici anche questo: “il primo titolo della Nostra missione e della Nostra autorità è quello di essere Vescovo di Roma”. E Papa Montini sarà fedele a questa scelta, compiendo numerose visite alle parrocchie di Roma, dando risalto anche alle zone periferiche per celebrarvi importanti ricorrenze, come le messe mattutine del Natale e della Pasqua.

Il 29 settembre 1963 Paolo VI apre la seconda sessione del Concilio, con un memorabile intervento che segna la vera svolta dei lavori conciliari, in quanto il nuovo Papa consegna ai Padri conciliari il disegno organico del Concilio secondo un tema unificatore. E il tema non poteva essere che la Chiesa: la Chiesa chiamata ad indagare la propria natura, ad esplorare il suo mistero, a definire con più chiarezza la propria identità, a ridefinire la propria relazione a Cristo; la Chiesa che, dopo aver preso migliore coscienza di sé, è chiamata a rinnovarsi, a riformare se stessa per essere sempre più conforme a Cristo, a liberare le sue migliori energie spirituali e morali per ringiovanirsi nelle sue forze interiori, nelle sue strutture canoniche, nelle sue forme rituali; la Chiesa che si apre ai fratelli separati, “che apre le porte, alza la voce, attende ansiosa le tante pecore di Cristo che nell’unico ovile tuttora non sono”; e infine la Chiesa, chiamata con il Concilio a “lanciare un ponte verso il mondo contemporaneo” qualificandosi come “fermento vivificante e strumento di salvezza del mondo stesso”. Ma queste quattro grandi linee che, nelle intenzioni di Paolo VI, costituiscono l’architettura del Concilio, sgorgano da un principio vitale unico e unificante: “Christum dicimus, principium nostrum esse, Christum ducem et viam esse nostram, Christum esse spem nostram nostrumque finem” (“Cristo, nostro principio, Cristo, nostra via e nostra guida, Cristo, nostra speranza e nostro traguardo”). Dunque, il pensiero ecclesiologico di Paolo VI non è ecclesiocentrico, ma cristocentrico.

E’ già presente, fin da questa prima allocuzione conciliare, il tema della sua prima e impareggiabile enciclica, la Ecclesiam suam (agosto 1964), sul dialogo all’interno della Chiesa e della Chiesa con il mondo. Chi non ha mai letto questa enciclica, potrebbe essere tentato di ritenere Montini un Papa moderno perché relativista. Ma il dialogo, in Paolo VI, affonda le sue radici nella conoscenza della Verità, senza della quale ogni dialogo diventa inevitabilmente infruttuoso, ideologico e opportunista.

Le grandi allocuzioni, di apertura e di chiusura delle sessioni conciliari costituiscono una chiave di lettura indispensabile per la comprensione della lettera e dello spirito del Vaticano II. Persino il linguaggio usato da Paolo VI rivela la ricchezza del suo cuore, l’apertura della sua acuta intelligenza, la profondità della sua sensibilità umanistica, la complessità della realtà che si affaccia al suo sguardo interiore: uno sguardo, quello di Papa Montini, indagatore e profondo, che penetra negli occhi e nel cuore di ogni suo interlocutore, uno sguardo rivelatore di uno spessore umano e spirituale non comuni: il sottoscritto lo ha potuto personalmente assaporare e sperimentare nella udienza particolare ai sacerdoti del Seminario Lombardo di Roma il 4 novembre 1972.

 

Le allocuzioni conciliari, che sono parte integrante dei testi stessi del Concilio, non sono soltanto interventi programmatici, ma esprimono la dimensione interiore dell’uomo e del cristiano Montini, pienamente inserito nel travaglio del nostro tempo inquieto, ma anche pienamente consapevole della sua missione di pastore della Chiesa, chiamato a confermare nella fede i suoi fratelli. Come non risentire con quanta passione e con quanto coraggio si è espresso nel Discorso del 7 dicembre 1965, a conclusione del Concilio: “L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo”.

       Se da una parte Papa Montini ha sempre avvertito acutamente il senso dei propri limiti e delle proprie fragilità, tale percezione non è mai stata vissuta a detrimento della sua missione. Quando visitò il Centro del Consiglio Ecumenico delle Chiese a Ginevra nel giugno del 1969, ebbe a dire: “Qual è il senso della Nostra venuta qui, sulla soglia della vostra casa, se non quello di una gioiosa ubbidienza all’impulso segreto che qualifica, per precetto e misericordia di Cristo, il Nostro ministero e la Nostra missione? Felice incontro, in verità, momento profetico, aurora di un giorno futuro e atteso da secoli! Eccoci dunque in mezzo a voi. Il Nostro nome è Pietro”.

     Nella turbolenta stagione postconciliare Paolo VI confidava di frequente al popolo cristiano, soprattutto nelle Udienze generali del mercoledì, i suoi pensieri sullo “stato della Chiesa”. Le sue diagnosi, sempre lucide, appassionate e coraggiose, sono anticipatrici di situazioni che stiamo vivendo ancora oggi. Il 15 novembre 1970 il Papa così si esprimeva:“Che diremo delle condizioni interne della Chiesa? Vi sono certamente segni meravigliosi di vitalità, di spiritualità, di santità. Ma non è forse per tutti motivo di stupore, di dolore, di scandalo vedere che proprio dal di dentro della Chiesa nascono inquietudini e infedeltà, e spesso da parte di chi, per impegno professato e per carisma ricevuto, dovrebbe essere più esemplare?”. E continuava: “Talvolta la sofferenza interiore della Chiesa, per certe aberrazioni dottrinali, per certi scandali morali, per certe spregiudicatezze disciplinari, provenienti dai suoi figli, è più acerba che non quella delle difficoltà esteriori”. Fino a giungere a quelle espressioni che non mancarono di suscitare sorpresa e scandalo: “Si direbbe che da qualche misteriosa, no, non è misteriosa, da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio(…). Non ci si fida più della Chiesa. Ci si fida del primo profeta che viene a parlarci da qualche giornale (…) Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E’ venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di incertezza (…). Cerchiamo di scavare abissi invece di colmarli” (29 giugno 1972).

       Il suo sguardo sul mondo lo portò ad occuparsi del tema della pace. Sua è l’iniziativa – felicemente perseguita anche dai suoi successori – di indire per il capodanno la Giornata della Pace, a partire dal 1 gennaio 1968. Nel suo primo messaggio Paolo VI chiarì subito la sua concezione della pace: “Pace non è pacifismo, non nasconde una concezione vile e pigra della vita, ma proclama i più alti e universali valori della vita: la verità, la giustizia, la libertà, l’amore”. E inoltre “sarà da auspicare che la esaltazione dell’ideale della pace non debba favorire l’ignavia di coloro che temono di dover dare la vita al servizio del proprio Paese e dei propri fratelli, quando questi sono impegnati nella difesa della giustizia e della libertà, ma cercano solamente la fuga delle responsabilità, dei rischi necessari per il compimento di grandi doveri e di imprese generose”.

       Paolo VI fu osteggiato da sinistra e da destra. Da sinistra fu accusato di essere conservatore; da destra di essere un progressista. E così si trovò spesso solo a fronteggiare situazioni opposte. Nel 1967, dopo la pubblicazione del Catechismo olandese che presentava la fede cattolica in termini innovativi e bordeggianti, sui alcuni punti, l’eterodossia, Papa Montini avvertì la necessità di indire l’Anno della Fede, per celebrare il diciannovesimo centenario del martirio degli apostoli Pietro e Paolo. Fu in quell’occasione che, al termine di quell’Anno giubilare, il 30 giugno 1968, Paolo VI pronunciò in piazza San Pietro una solenne professione di fede, il “Credo del popolo di Dio”, per confermare la fede di sempre di fronte a posizioni teologiche che ne minavano l’integrità. Sul versante opposto, dovette far fronte alle posizioni tradizionaliste del vescovo Lefèbvre, che si oppose alle riforme del Vaticano II, soprattutto in materia liturgica. Paolo VI, dopo alcuni tentativi di ricomposizione, fu costretto nel 1976 a sospenderlo dall’esercizio del ministero.

Papa Montini si fa conoscere ben presto anche attraverso i gesti, di squisita carità e di grande e dignitosa (perché mai ostentata) umiltà; attraverso i viaggi apostolici, da lui coraggiosamente inaugurati con il memorabile pellegrinaggio in Terrasanta dal 4 al 6 gennaio 1964 e con la visita all’Onu nell’ottobre 1965; attraverso la coraggiosa semplificazione delle vesti e delle forme esteriori del cerimoniale papale (rinuncerà alla tiara per donare il corrispettivo ai poveri; e nel 1968 abolirà la Corte pontificia con tutto il suo suggestivo ma ormai obsoleto apparato esteriore); attraverso la sofferenza, da lui sempre pazientemente sopportata, di fronte al clima di contestazione crescente, anche intraecclesiale, che si acuirà a partire dalle encicliche Sacerdotalis coelibatus del 1967 e l’ Humanae Vitae del 1968: due prese di posizione che rivelano il coraggio di Paolo VI di pronunciarsi su due temi – quali il celibato sacerdotale e i problemi connessi all’amore coniugale e alla trasmissione della vita umana – sui quali c’era molto contrasto e anche dissenso all’interno della Chiesa.

Un capitolo a parte meriterebbe la riflessione di Papa Montini sull’arte e sulla bellezza nella liturgia. Le parole pronunciate da Papa Paolo VI il 7 maggio 1964 agli artisti riuniti nella Cappella Sistina condensano il significato di un messaggio a lungo meditato, e di un impegno a favore di pittori, scultori, musicisti e poeti, cui raramente nel passato l’autorità ecclesiastica aveva prestato tanta attenzione. Negli scritti montiniani è costante il riferimento alla bellezza, quale “splendore di verità”; che va intesa non come meta fine a se stessa, concetto astratto e ricerca della perfezione formale, ma quale partecipazione del sensibile alla creazione divina o quale riflesso del mondo divino nel nostro mondo creato. Un segno eloquente è dato dalla Collezione di Arte Contemporanea – all’interno del percorso dei Musei Vaticani – nata dal desiderio di Paolo VI di ripristinare il dialogo tra Chiesa e cultura contemporanea e inaugurata dallo stesso Papa Montini il 23 giugno 1973. Per non parlare del Messaggio agli Artisti (“Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. Voi siete i custodi della bellezza nel mondo… ”) al termine del Concilio Vaticano II l’8 dicembre 1965.

Circa la liturgia, Paolo VI nella Sacrificium Laudis del 1966 (epistola apostolica sulla lingua latina da usare nell’Ufficio liturgico corale da parte dei religiosi tenuti all’obbligo del coro), si domandava: “Quale lingua, quale canto vi sembra che possa nella presente situazione sostituire quelle forme della pietà cattolica che avete usato finora? Bisogna riflettere bene, perché le cose non diventino peggiori dopo aver rinnegato questa gloriosa eredità (…). Sorge anche un altro interrogativo: gli uomini desiderosi di sentire le sacre preci entreranno ancora così numerosi nei vostri templi, se non vi risuonerà più l’antica e nativa lingua di quelle preghiere, unita al canto pieno di gravità e bellezza?”. Una questione rimasta insoluta e che ci interroga ancora oggi. Non si tratta semplicemente di “tornare al latino”, ma di evitare quella sciatteria e quella banalità che contrassegnano non poche celebrazioni liturgiche nell’ora attuale. Non è più procrastinabile la questione del canto nella liturgia. Sta di fatto che, mentre l’antica liturgia latina comunicava il senso del mistero e del sacro anche attraverso testi, melodie e musiche di rara e composta bellezza, non altrettanto possiamo dire delle celebrazioni odierne, sempre più simili a manifestazioni mondane, e per giunta spesso di basso livello, sia contenutistico, sia artistico.   Il problema non sta certo nella lingua, ma nel creare testi e musiche che favoriscano la dimensione spirituale della partecipazione liturgica, senza dimenticare i tesori del passato, che non devono essere ideologicamente censurati.


Gli ultimi mesi della sua vita furono segnati dalla tristezza e dal dolore per il rapimento di Aldo Moro, a cui lo legava un rapporto di amicizia di lungo corso. Agli “uomini delle Brigate Rosse” ebbe l’ardire, nell’aprile del 1978, di scrivere una lettera in cui chiedeva di restituire
alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l’onorevole Aldo Moro”. “Io – aggiungeva Paolo VI – non ho alcun mandato nei suoi confronti, né sono legato da alcun interesse privato verso di lui. Ma lo amo come membro della grande famiglia umana, come amico di studi, e a titolo del tutto particolare, come fratello di fede e come figlio della Chiesa di Cristo”. Dopo l’uccisione di Aldo Moro, Paolo VI partecipò ad una Messa di suffragio, celebrata in San Giovanni in Laterano il 13 maggio 1978, senza il corpo di Moro e assenti i suoi familiari. Come non ricordare la preghiera, composta di suo pugno dal Papa, con cui si rivolge direttamente a Dio? Essa così recita:“Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il “De profundis”, il grido, il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. Signore, ascoltaci! E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui. Signore, ascoltaci!”.

E’ uno dei testi più alti dell’omiletica novecentesca, un’invocazione, un rimprovero, un grido di dolore creaturale che il vicario di Cristo rivolgeva direttamente al Padre per interrogarne il silenzio in cui lo stesso Pontefice sembrava faticare a scorgere un disegno provvidenziale.

 

La grandezza e l’umiltà di questo cristiano e di questo Papa risplendono ancora oggi nel suo Pensiero alla morte: uno scritto che meriterebbe un posto anche nei manuali di letteratura italiana; e nel suo Testamento, dove Paolo VI annuncia la sua decisione di essere sepolto nella nuda terra, senza alcun monumento. Il luogo della sua sepoltura, nelle grotte vaticane, rivela ancora oggi la sua sofferta solitudine, ma anche la fedeltà e la perseveranza   nella missione apostolica cui è stato chiamato.

 

       Paolo VI ha gettato alcuni semi, nel rinnovamento dell’esercizio concreto del ministero petrino, che i suoi successori hanno potuto far crescere nel vasto campo della Chiesa. Non è un mistero che Papa Francesco non perde occasione per manifestare la sua ammirazione e la sua stima per Paolo VI, per i suoi preziosi insegnamenti, per la sua sofferta testimonianza e per il suo amore alla Chiesa. All’inizio del suo pontificato, Papa Francesco ebbe a dire a proposito dell’Esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii nuntiandi, del 1975: “per me il documento pastorale più grande che è stato scritto fino a oggi”. Anche questo documento testimonia la passione apostolica di Paolo VI e rivela il suo mondo interiore, desideroso di far conoscere a tutti, e soprattutto all’uomo contemporaneo, la ricchezza e la bellezza del Vangelo: non tanto attraverso scritti e discorsi, ma soprattutto attraverso la testimonianza. Ricordiamo qui una delle espressioni più felici e più citate della Evangelli nuntiandi: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, – dicevamo lo scorso anno a un gruppo di laici – o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni” (n. 41).                                                              

Don Alberto Franzini

6 agosto 2018

 

Festa liturgica della Trasfigurazione del Signore

Quarantesimo anniversario della morte di Paolo VI

 

Pubblichiamo in questo Quaderno la relazione tenuta dal prof. Carlo Cardia – docente di Diritto ecclesiastico, Diritto canonico e Diritto delle istituzioni religiose presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma Tre – l’ 8 novembre 2017 presso la Basilica di San Paolo fuori le Mura in occasione del Convegno “Paolo VI, il Papa della modernità: giustizia tra i popoli e amore per l’Italia”, promosso e organizzato dalla cattedra di Diritto ecclesiastico dell’Università di Roma Tre in collaborazione con l’Abbazia dei Benedettini. E’ un ritratto ricco e veritiero della personalità e dell’azione apostolica di Paolo VI. Un ritratto da consegnare a quanti – giovani e meno giovani – sono interessati alla figura di questo grande Papa, che ci ha lasciato nei suoi scritti privati una testimonianza singolare della sua vicenda interiore e ha donato alla Chiesa insegnamenti magisteriali che non hanno ancora indebolito né esaurito la loro forza profetica per il cammino futuro del popolo di Dio nella storia.

LO SGUARDO VERSO L’ALTO.
IL PAPA PIU’ ITALIANO E PIU’ UNIVERSALE DELLA MODERNITA’
Una scelta spirituale strategica, e uno scritto sulla condizione della donna del primo Novecento, fanno intravedere la personalità del giovane Giovanni Battista Montini, proprio per la loro apparente eterogeneità. Scrivendo a 17 anni al compagno di classe Andrea Bedeschi, morto nel campo di Mauthausen nel 1945, il giovanissimo Montini esprime l’idea che lo sta catturando, perché annuncia che “la mia vita passerà rivolta in alto, ambirà a vette che superano la dimensione terrena, rispondono a una chiamata superiore”[1]. E’ l’annuncio della scelta del sacerdozio, che Giovanni Battista compirà presto e s’intreccerà con suggestioni spirituali e religiose, come quella di farsi benedettino, da cui nasce la lunga frequentazione dei monaci, anche di questa Basilica di San Paolo, su cui tornerò più avanti. Ricordo l’attrazione per S. Ignazio di Lojola e la Compagnia di Gesù, nonché la vicinanza alla famiglia rosminiana, per lui e i suoi discepoli. Queste suggestioni verranno sostituite e colmate da tanti incarichi affidati presto al giovane prete, a proposito dei quali (in particolare per la direzione del Circolo romano della FUCI) parlerà del suo “piccolo e ritorto sentiero”[2].
Diversa la citazione che voglio fare di un articolo che il giovane Montini scrive nel 1921 per la Rivista “La Madre Cattolica”, dove invita a riflettere sulla condizione della donna, movendo da questo semplice fatto: “che anche all’altra metà, l’inseparabile metà dei cittadini, meglio di cittadine, viene aperta la vita pubblica: le porte di essa s’aprono anche per la donna; essa uscirà per pronunciare il suo plebiscito sui pubblici affari: una scheda, un’arma anche per lei; e la cosa sembra molto semplice”. Aggiunge, in una complessa analisi: “oggi non arriviamo a misurare le conseguenze di questo fatto, le intravediamo nella gestione della cosa pubblica che potrà indifferentemente essere guidata dal cervello e dalla mano d’un uomo, come dal cervello e dalla mano d’una donna; cosa diversa, che avrà certo, non diciamo quali, le sue conseguenze”[3].
L’analisi si sofferma su elementi psicologi e storico-giuridici, quelli contrari al voto femminile, e quelli favorevoli. Tra i primi, individuati con sottile ironia, “v’è uno stato d’animo, che potremmo chiamare di verecondia politica, che ha finora guardato di malocchio un diritto che implica certamente dei disturbi, come la rinuncia all’antico quieto vivere e quindi “non pensare”; che tende all’infrazione dell’abitudinaria soggezione muliebre, pur tanto gentile, se da essa nacque la cavalleria, e pur tanto ovvia, se è voluta dalla natura; e che all’esercizio di nuovi diritti mette in gioco nuove responsabilità, di cui finora la donna non s’era creduta capace”. Segue un giudizio storico di qualche rilievo, quando l’Autore segnala una tradizionale arretratezza cattolica, sui diritti civili. Ricorda che le contrarietà al voto femminile, “sono più facili a essere meditate da un ceto femminile distinto per senso morale e per educazione, che da uno superficiale o privo di convinzioni profonde: ecco forse la ragione per cui le donne cattoliche, all’estero, dove nacque il movimento per il suffragio femminile, non furono sempre all’avanguardia, e da noi molte ancora non capiscono i vantaggi d’un simile istituto, e invece capiscano bene che i tempi camminano”[4].
Prosegue, individuando quanto v’era d’arretrato nell’opposizione al suffragio femminile: “non comprendere come i tempi portino necessariamente a ciò. Per negare il suffragio femminile, non uscire di casa, non entrare in tutti gli uffici, in tutte le scuole; avrebbe dovuto mantenersi il voto a pochissimi uomini, quelli solo che davvero avrebbero potuto dirsi superiori e agli altri e alla donna; avrebbe dovuto essere arrestato in principio il movimento democratico”. E soprattutto cogliendo quanto di cristiano vi sia nell’accettare il progresso: “saper discernere non i pregi del passato, ma i bisogni dell’avvenire e preparati arditamente secondo un programma di bene. Chi manca dell’intuizione del bene non ne possederà che a stento e senza efficacia l’esercizio”[5].
L’attrazione e l’aspirazione al trascendente, che catturerà la sua esistenza, lo studio e l’azione per comprendere e cambiare la storia dell’uomo, costituiscono gli orizzonti della vita di Giovanni Battista Montini, e indicano in qualche modo un altro suo eccellente carattere: Paolo VI sarà il Papa più italiano e insieme più universale della modernità. Formatosi in un ambito cattolico bresciano che aveva superato l’intransigentismo dell’Ottocento, Giovanni Battista respira in famiglia una cultura politica nazionale, aperta sin dagli inizi agli orizzonti europei per il tramite della lingua e della cultura francese. E vede evolvere la propria vita tra incarichi ecclesiastici sacerdotali, come l’assistenza agli studenti universitari che lo pongono al centro dello scontro con il fascismo e la sua indole totalitaria, e incarichi diplomatici che, dopo un passaggio a Varsavia, lo situano al centro della Curia romana. Di lì, egli sale i livelli della collaborazione con Pio XI fino all’inserimento nella Segreteria di Stato come primo collaboratore di Pio XII[6] in tutto il periodo della seconda guerra mondiale e dello spiegamento del totalitarismo nazista, poi di quello comunista-staliniano.
Il punto di congiunzione tra dimensione italiana e dimensione universale della persona di Montini sta nella sua cultura ecclesiastica, sempre all’avanguardia per un’epoca di snodo tra passato e futuro, e nell’essere presto proiettato in un orizzonte che supera gli eventi politici immediati. Giovanni Battista è subito immerso in un mondo giovanile nazionale nel quale si forma la classe dirigente italiana che governerà lo Stato democratico nel post-fascismo, e manterrà come nessun Pontefice ha fatto nel Novecento, stretti e personali rapporti con i governati cattolici italiani, fino a vivere alcuni drammi personali e politici che hanno segnato il suo pontificato. Ma Giovanni Battista Montini è stato anche l’ecclesiastico collaboratore di due Pontefici, soprattutto di Pio XII, riuscendone ad assimilare la capacità di direzione e guida della Chiesa, vivendone lo spirito antitotalitario, preparando l’evoluzione verso il Concilio e realizzandone le più impegnative innovazioni: questo ricco intrecciarsi d’intelligenza, spiritualità, impegno storico, ha fatto di lui il più grande Papa riformatore della modernità.
Paolo VI non è diventato Papa per caso, o all’improvviso, è stato forse il Papa più annunciato del Novecento, e non è mai stato quel Papa incerto, sofferente per le sue incertezze e per le critiche che ha ricevuto spesso anche in ambienti cattolici più o meno dissenzienti. Quasi tutti sapevano che Montini sarebbe stato successore di Giovanni XXIII (un po’ com’era accaduto per lo stessa Papa Roncalli[7]), e ciò non può destare alcuno stupore neanche tra i credenti, dal momento che non esiste un orario preciso perché si attivi l’ispirazione dello Spirito Santo, che può ben essere precedente all’evento conclavizio. Paolo VI ha avuto sin dagli inizi precisa consapevolezza della funzione petrina, di cui è stato investito, e con piena consapevolezza ha saputo guidare un Concilio Vaticano II che era aperto a molteplici correnti e orientamenti, ed ha saputo resistere ad una contestazione della Chiesa quale non si era mai avuta nell’epoca moderna.
Di qui il duplice versante del suo Pontificato. Paolo VI ha saputo agire come papa italiano con una formazione laica e mediatrice che attingeva alla nostra tradizione nazionale, e ha guidato la classe dirigente italiana con una sapienza che ha aperto le porte al più ricco pluralismo religioso e ideale della storia italiana. Insieme, Papa Montini ha chiuso i conti con il tradizionale confessionismo, ha radicato la Chiesa nella modernità e per certi versi ha ricondotto la Cattedra di Pietro alle origini, con il primo viaggio di ritorno da Roma a Gerusalemme, per poi spingerla nei mari aperti in tutto il Pianeta: ha fatto conoscere il Papa agli uomini di tutti i Paesi, e razze, di ogni opinione religiosa o culturale. Se la Chiesa per un certo periodo ha vissuto la sua universalità stretta nei confini d’Europa e dell’Occidente, Paolo VI la ripropone al mondo intero, recandosi all’Assemblea generale dell’ONU per affermare che la Chiesa e l’Organizzazione delle Nazioni hanno un tratto decisivo comune, hanno entrambe rappresentatività universale, perché ognuna di esse rappresentano tutti i popoli e le nazioni del mondo.

LO SGUARDO VERSO L’ALTO.
IL PAPA PIU’ ITALIANO E PIU’ UNIVERSALE DELLA MODERNITÀ

Una scelta spirituale strategica, e uno scritto sulla condizione della donna del primo Novecento, fanno intravedere la personalità del giovane Giovanni Battista Montini, proprio per la loro apparente eterogeneità. Scrivendo a 17 anni al compagno di classe Andrea Bedeschi, morto nel campo di Mauthausen nel 1945, il giovanissimo Montini esprime l’idea che lo sta catturando, perché annuncia che “la mia vita passerà rivolta in alto, ambirà a vette che superano la dimensione terrena, rispondono a una chiamata superiore”[1]. E’ l’annuncio della scelta del sacerdozio, che Giovanni Battista compirà presto e s’intreccerà con suggestioni spirituali e religiose, come quella di farsi benedettino, da cui nasce la lunga frequentazione dei monaci, anche di questa Basilica di San Paolo, su cui tornerò più avanti. Ricordo l’attrazione per S. Ignazio di Lojola e la Compagnia di Gesù, nonché la vicinanza alla famiglia rosminiana, per lui e i suoi discepoli. Queste suggestioni verranno sostituite e colmate da tanti incarichi affidati presto al giovane prete, a proposito dei quali (in particolare per la direzione del Circolo romano della FUCI) parlerà del suo “piccolo e ritorto sentiero”[2].
Diversa la citazione che voglio fare di un articolo che il giovane Montini scrive nel 1921 per la Rivista “La Madre Cattolica”, dove invita a riflettere sulla condizione della donna, movendo da questo semplice fatto: “che anche all’altra metà, l’inseparabile metà dei cittadini, meglio di cittadine, viene aperta la vita pubblica: le porte di essa s’aprono anche per la donna; essa uscirà per pronunciare il suo plebiscito sui pubblici affari: una scheda, un’arma anche per lei; e la cosa sembra molto semplice”. Aggiunge, in una complessa analisi: “oggi non arriviamo a misurare le conseguenze di questo fatto, le intravediamo nella gestione della cosa pubblica che potrà indifferentemente essere guidata dal cervello e dalla mano d’un uomo, come dal cervello e dalla mano d’una donna; cosa diversa, che avrà certo, non diciamo quali, le sue conseguenze”[3].
L’analisi si sofferma su elementi psicologi e storico-giuridici, quelli contrari al voto femminile, e quelli favorevoli. Tra i primi, individuati con sottile ironia, “v’è uno stato d’animo, che potremmo chiamare di verecondia politica, che ha finora guardato di malocchio un diritto che implica certamente dei disturbi, come la rinuncia all’antico quieto vivere e quindi “non pensare”; che tende all’infrazione dell’abitudinaria soggezione muliebre, pur tanto gentile, se da essa nacque la cavalleria, e pur tanto ovvia, se è voluta dalla natura; e che all’esercizio di nuovi diritti mette in gioco nuove responsabilità, di cui finora la donna non s’era creduta capace”. Segue un giudizio storico di qualche rilievo, quando l’Autore segnala una tradizionale arretratezza cattolica, sui diritti civili. Ricorda che le contrarietà al voto femminile, “sono più facili a essere meditate da un ceto femminile distinto per senso morale e per educazione, che da uno superficiale o privo di convinzioni profonde: ecco forse la ragione per cui le donne cattoliche, all’estero, dove nacque il movimento per il suffragio femminile, non furono sempre all’avanguardia, e da noi molte ancora non capiscono i vantaggi d’un simile istituto, e invece capiscano bene che i tempi camminano”[4].
Prosegue, individuando quanto v’era d’arretrato nell’opposizione al suffragio femminile: “non comprendere come i tempi portino necessariamente a ciò. Per negare il suffragio femminile, non uscire di casa, non entrare in tutti gli uffici, in tutte le scuole; avrebbe dovuto mantenersi il voto a pochissimi uomini, quelli solo che davvero avrebbero potuto dirsi superiori e agli altri e alla donna; avrebbe dovuto essere arrestato in principio il movimento democratico”. E soprattutto cogliendo quanto di cristiano vi sia nell’accettare il progresso: “saper discernere non i pregi del passato, ma i bisogni dell’avvenire e preparati arditamente secondo un programma di bene. Chi manca dell’intuizione del bene non ne possederà che a stento e senza efficacia l’esercizio”[5].
L’attrazione e l’aspirazione al trascendente, che catturerà la sua esistenza, lo studio e l’azione per comprendere e cambiare la storia dell’uomo, costituiscono gli orizzonti della vita di Giovanni Battista Montini, e indicano in qualche modo un altro suo eccellente carattere: Paolo VI sarà il Papa più italiano e insieme più universale della modernità. Formatosi in un ambito cattolico bresciano che aveva superato l’intransigentismo dell’Ottocento, Giovanni Battista respira in famiglia una cultura politica nazionale, aperta sin dagli inizi agli orizzonti europei per il tramite della lingua e della cultura francese. E vede evolvere la propria vita tra incarichi ecclesiastici sacerdotali, come l’assistenza agli studenti universitari che lo pongono al centro dello scontro con il fascismo e la sua indole totalitaria, e incarichi diplomatici che, dopo un passaggio a Varsavia, lo situano al centro della Curia romana. Di lì, egli sale i livelli della collaborazione con Pio XI fino all’inserimento nella Segreteria di Stato come primo collaboratore di Pio XII[6] in tutto il periodo della seconda guerra mondiale e dello spiegamento del totalitarismo nazista, poi di quello comunista-staliniano.
Il punto di congiunzione tra dimensione italiana e dimensione universale della persona di Montini sta nella sua cultura ecclesiastica, sempre all’avanguardia per un’epoca di snodo tra passato e futuro, e nell’essere presto proiettato in un orizzonte che supera gli eventi politici immediati. Giovanni Battista è subito immerso in un mondo giovanile nazionale nel quale si forma la classe dirigente italiana che governerà lo Stato democratico nel post-fascismo, e manterrà come nessun Pontefice ha fatto nel Novecento, stretti e personali rapporti con i governati cattolici italiani, fino a vivere alcuni drammi personali e politici che hanno segnato il suo pontificato. Ma Giovanni Battista Montini è stato anche l’ecclesiastico collaboratore di due Pontefici, soprattutto di Pio XII, riuscendone ad assimilare la capacità di direzione e guida della Chiesa, vivendone lo spirito antitotalitario, preparando l’evoluzione verso il Concilio e realizzandone le più impegnative innovazioni: questo ricco intrecciarsi d’intelligenza, spiritualità, impegno storico, ha fatto di lui il più grande Papa riformatore della modernità.
Paolo VI non è diventato Papa per caso, o all’improvviso, è stato forse il Papa più annunciato del Novecento, e non è mai stato quel Papa incerto, sofferente per le sue incertezze e per le critiche che ha ricevuto spesso anche in ambienti cattolici più o meno dissenzienti. Quasi tutti sapevano che Montini sarebbe stato successore di Giovanni XXIII (un po’ com’era accaduto per lo stessa Papa Roncalli[7]), e ciò non può destare alcuno stupore neanche tra i credenti, dal momento che non esiste un orario preciso perché si attivi l’ispirazione dello Spirito Santo, che può ben essere precedente all’evento conclavizio. Paolo VI ha avuto sin dagli inizi precisa consapevolezza della funzione petrina, di cui è stato investito, e con piena consapevolezza ha saputo guidare un Concilio Vaticano II che era aperto a molteplici correnti e orientamenti, ed ha saputo resistere ad una contestazione della Chiesa quale non si era mai avuta nell’epoca moderna.
Di qui il duplice versante del suo Pontificato. Paolo VI ha saputo agire come papa italiano con una formazione laica e mediatrice che attingeva alla nostra tradizione nazionale, e ha guidato la classe dirigente italiana con una sapienza che ha aperto le porte al più ricco pluralismo religioso e ideale della storia italiana. Insieme, Papa Montini ha chiuso i conti con il tradizionale confessionismo, ha radicato la Chiesa nella modernità e per certi versi ha ricondotto la Cattedra di Pietro alle origini, con il primo viaggio di ritorno da Roma a Gerusalemme, per poi spingerla nei mari aperti in tutto il Pianeta: ha fatto conoscere il Papa agli uomini di tutti i Paesi, e razze, di ogni opinione religiosa o culturale. Se la Chiesa per un certo periodo ha vissuto la sua universalità stretta nei confini d’Europa e dell’Occidente, Paolo VI la ripropone al mondo intero, recandosi all’Assemblea generale dell’ONU per affermare che la Chiesa e l’Organizzazione delle Nazioni hanno un tratto decisivo comune, hanno entrambe rappresentatività universale, perché ognuna di esse rappresentano tutti i popoli e le nazioni del mondo.

PAOLO VI E L’AMORE PER L’ITALIA. STORIA, RISORGIMENTO, REPUBBLICA.

Nei Messaggi d’onore che abbiamo ricevuto per il nostro Convegno[8] diverse personalità ricordano il rapporto che ha unito Paolo VI all’Italia e alla Repubblica democratica, e il Prof. Garancini parlerà da par suo sul senso della storia proprio di Paolo VI. Io vorrei ritagliarmi uno spazio per parlare di entrambe le cose da una angolazione particolare, da quell’amore speciale del Papa per l’Italia, il suo legame secolare con la Chiesa di Roma, il risorgimento che ha fatto l’Italia moderna e democratica. Non stupisca se uso la parola “amore”, perché così ho sempre percepito il rapporto di Paolo VI con l’Italia, dalle sue parole, dagli scritti, dal suo magistero. Mi limito ad esplorare questo legame per come s’è sviluppato in più direzioni. Ho già detto che Papa Montini è stato il Papa più italiano che abbiamo avuto nel XX secolo per aver vissuto, e saputo interpretare, da protagonista le grandi fasi della nostra storia nazionale, fin da quando si sono intrecciate e sviluppate le nostre radici storiche e spirituali. Sulle quali Paolo VI si sofferma con la propria insuperabile capacità di sintesi, culturale e poetica, l’11 gennaio 1964, quando si reca in visita al Quirinale. Il Papa ricorda di non avere più il titolo “d’una sovranità temporale (…); ma solo quello della Nostra potestà spirituale che guardava ieri e tanto più guarda oggi all’Italia come ad un popolo costituente nella sua grande maggioranza e, sotto certi aspetti, vorremmo dire nella sua totalità, una comunità cattolica”. Aggiunge, con un passaggio indimenticabile per la sua bellezza: “vogliamo un bene, un bene tutto spirituale, pastorale, oltre che naturale, a questo magnifico e travagliato paese; non dimentichiamo i secoli durante i quali il papato ha vissuto la sua storia, difeso i suoi confini, custodito il suo patrimonio culturale e spirituale, educato a civiltà, a gentilezza, a virtù morale e sociale le sue generazioni, associato alla propria missione spirituale la sua coscienza romana ed i suoi figli migliori”[9].

Paolo VI mantiene viva, da giovanissimo, una visione provvidenziale della storia, e in questo orizzonte elabora una singolarissima trasfigurazione del nostro Risorgimento quando nel 1962 parla in Campidoglio, pochi mesi prima di diventare Papa. Egli evoca le opposte intransigenze che si confrontano e combattono nel corso dell’Ottocento e toccano il punto più alto con la breccia di Porta Pia nel 1870, e la fine del potere temporale dei Papi. Aggiunge, quindi, con ardire e originalità: “la Provvidenza aveva diversamente disposto le cose, quasi drammaticamente giocando sugli avvenimenti”. Il Papa, infatti “usciva glorioso dal Concilio Vaticano I per la definizione dogmatica delle sue supreme potestà nella Chiesa di Dio, e usciva umiliato per la perdita delle sue potestà temporali nella stessa sua Roma, ma, com’è noto, fu allora che il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di Maestro di vita e di testimone del Vangelo, così da risalire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione morale sul mondo, come prima non mai”[10]. I giovani qui presenti sanno che da sempre noi italiani eravamo consapevoli che i nostri grandi Padri della Patria stanno tutti in Paradiso, perché i meriti acquisiti per il bene del Paese portano in cielo: anche l’amor patrio conduce diritti in Paradiso. Nel 1962, il Cardinale Montini inserisce la nostra storia risorgimentale in un disegno storico voluto dalla Provvidenza, è una cosa bellissima.

Questa visione grande della storia, e della specifica storia italiana, accompagna Paolo VI fin dagli inizi, lo situa stabilmente sul versante di quel cattolicesimo democratico che è capace di superare l’intransigentismo ottocentesco, di porsi come alternativa alla politica e mentalità del fascismo trionfante, di impegnarsi nella elaborazione della Costituzione democratica e nella crescita del secondo dopoguerra, fino agli ultimi giorni nei quali matura la tragedia di Aldo Moro e l’appello del Papa agli uomini delle Brigate Rosse[11]. Un filo rosso robusto, bene individuato dalla storiografia, unisce il giovane Montini a una visione politica democratica, da quando, pur nei limiti imposti dalle maglie dei Patti lateranensi, coglie subito l’antitesi radicale tra concezione fascista dello Stato e un certo umanesimo cattolico. Egli accetta il Concordato del 1929 come strumento di salvaguardia della Chiesa e delle sue libertà, ma ne individua limiti e negatività che un tempo dovranno essere superate, e dedica molto suo impegno sacerdotale alla formazione di quella classe dirigente cattolica che dovrà rifondare e dirigere, insieme ad altre forze politiche di sinistra, la nuova democrazia costituzionale.

Paolo VI è fermo sostenitore dell’autonomia dei laici nella politica italiana, ma questa autonomia si afferma poco per volta e il Papa segue con attenzione e discrezione l’evoluzione della Democrazia cristiana. Egli condivide i dubbi e le incertezze comuni nella fase dell’apertura a sinistra, e da Milano l’Arcivescovo mette in guardia dai rischi dell’apertura a sinistra: “riteniamo in conformità ai ripetuti avvertimenti della Sede Apostolica e alle istruzioni dell’Episcopato Lombardo, non doversi favorire la cosiddetta ‘apertura a sinistra’ nel momento presente e nella forma ora prospettata”[12]. Le cautele da cui è circondato il giudizio negativo – “nel momento presente e nella forma ora prospettata” – consentono all’Arcivescovo di Milano di accettare, e seguire con premura, la svolta maturata più tardi verso il centro-sinistra che diventò, da allora, l’orizzonte della politica italiana.

Di questo lungo, lunghissimo, rapporto con la democrazia italiana vorrei oggi ricordare un tratto, poco conosciuto, delle relazioni tra Santa Sede e partiti della sinistra storica col negoziato per la riforma del Concordato del 1929, che inizia formalmente nel 1976 e si concluderà nel 1984. Il contributo essenziale per questa importante riforma deriva dalla scelta condivisa di Santa Sede, Palazzo Chigi, partiti della sinistra, quando nel 1976, con il consenso esplicito di Paolo VI, si sceglie la strada di sottrarre il negoziato alle trattative diplomatiche necessariamente riservate, ponendolo sul c.d. binario della parlamentarizzazione. Non si tratta d’una scelta ovvia, perché così si inserisce la riforma in un processo più ampio, parlamentare e partitico. Tra l’altro, si legittima pienamente in questo modo il ruolo politico del partito di Enrico Berlinguer che, per la prima volta nella storia italiana avvia rapporti diretti e intensi con la Santa Sede, in specie col Cardinale Agostino Casaroli e l’Arcivescovo Mons. Achille Silvestrini.

Alla base di questa scelta è un’intesa, proposta da Casaroli e accettata di buon grado dagli esponenti della sinistra, da Berlinguer in modo particolare: che ciascuno si impegnasse a non far trapelare nulla, né all’esterno, né negli organi di partito, dei contenuti del negoziato e dei suoi sviluppi. Beninteso, i risultati della trattativa, con i testi elaborati e presentati al Parlamento, erano conosciuti da tutti perché ogni bozza di Concordato era prontamente pubblicata sui giornali; tuttavia, era salva la riservatezza sui numerosi incontri tra Governo e Santa Sede, ma anche tra forze politiche dentro e fuori il Vaticano, nelle più diverse sedi. Può sembrare, questo, un meccanismo di negoziazione complesso, intricato, sotto certi aspetti consociativo, ma funzionò alla perfezione, con una lealtà dei leader politici, e degli esponenti ecclesiastici, che non fu mai incrinata per alcun interesse di parte, pure legittimo. Tra l’altro, la scelta di associare Enrico Berlinguer alla trattativa diretta con il Governo e la Santa Sede divenne mezzo non secondario per aprire la politica italiana a un’interlocuzione più ampia rispetto ai confini del centro-sinistra che, nonostante le vicissitudini successive, con il tempo si andata consolidando in modo definitivo.

La motivazione di questa scelta erano diverse, ma s’incontrarono facilmente. La Santa Sede voleva, e Casaroli lo disse in più occasioni, un Accordo stabile, con un forte sostegno politico, in specie del PCI, che era esposto più di altri al vento della contestazione anticoncordataria, e che però garantiva il maggior sostegno parlamentare rispetto ad altre componenti della sinistra. Ci si rese conto subito di un tratto caratteristico del negoziato avviato nel 1976. Esso si tradusse in una lunga ‘guerra di posizione’ sulle singole materie ecclesiastiche, con discussioni a volte estenuanti su una o più parole, su materie che entravano e uscivano dal testo concordatario, e si tradusse anche in qualche formula un po’ arzigogolata (penso al matrimonio, la cui trattazione fu lunga e piena di complicazioni), ma poggiava su un punto fermo: nessuno degli interlocutori, neppure per un momento, Agostino Casaroli o Enrico Berlinguer, pensarono potesse fallire. Le componenti politiche, per parte loro, percepirono poi che ogni anno che passava la società maturava, cultura e mentalità politica della parte ecclesiastica si facevano più aperte, il traguardo si avvicinava e ciò che nel 1976 sembrava un traguardo difficile, nel 1980, 84, 85 divenne quasi uno sbocco naturale, con quel tratto decisamente riformatore che molti si attendevano.

Voglio citare un momento di speciale importanza del negoziato, anche oggi poco conosciuto, che evoca un tratto comune di Paolo VI e di Enrico Berlinguer, che fece da asse negli anni seguenti. Esso riguarda il nodo centrale dell’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche che aveva conosciuto una vicenda peculiare nella storia italiana. Era un nodo irrisolto, perché la lungimiranza del ceto dirigente liberale aveva consentito con l’Unità d’Italia, e fino al 1929, di mantenere l’insegnamento della religione cattolica almeno in tutte le scuole elementari, ed esso, pur facoltativo, venne scelto da tutte le famiglie italiane[13]. L’avvento del fascismo, prima con la Riforma Gentile del 1923, poi con i Patti Lateranensi del 1929, rafforza l’insegnamento religioso nelle scuole elementari, inserendolo negli studi superiori, con formule che lo rendono quasi obbligatorio, creando una nuova frattura tra cultura laica e cultura cattolica.

Di fatto, nei decenni successivi una parte considerevole delle forze politiche anticoncordatarie manifestava una tendenza francesizzante, avendo come obiettivo l’espulsione dalla scuola dell’insegnamento religioso, e ciò determinò la necessità di una sorta di sondaggio preliminare sull’argomento per vedere se esistessero o meno ostacoli per l’avvio di un negoziato che si voleva far giungere in porto. Sul punto, nei contatti diretti con la Santa Sede – che il Sen. Paolo Bufalini ed io tenevamo con Casaroli e Silvestrini – ci fu chiesto di conoscere direttamente l’orientamento di Enrico Berlinguer, dal momento che una opposizione seria sul punto avrebbe reso tutto più difficile. Era noto, d’altronde, e fu fatto rilevare, l’orientamento convinto di Paolo VI perché la scuola italiana non fosse privata di questa dimensione culturale e religiosa. Enrico Berlinguer fece sapere, per mio tramite, che la riforma del Concordato doveva portare a una piena ed effettiva facoltatività di tale insegnamento, per sanare le ferite aperte dalla Riforma Gentile e dal Concordato del 1929. Ma confermò nel merito che non solo non c’erano ostacoli, ma c’era piena e convinta condivisione nel mantenere l’insegnamento religioso nella scuola pubblica perché “è necessario che nella scuola ai giovani si parli di valori, valori umani e morali” (osservazione che Berlinguer fece anche in altre occasioni, in particolare negli ultimi giorni del negoziato). In altri termini, Enrico Berlinguer, e altri esponenti a lui vicini, intendevano questo punto non come concessione da fare alla Chiesa ma come un profilo importante per la formazione dei giovani, purché effettuato sulla base di una libera scelta delle famiglie e dei ragazzi. E questo è stato per anni l’orientamento ufficiale espresso in ogni sede, pubblica o riservata.

La scelta di Berlinguer fu accolta con gioia da Agostino Casaroli, che la definì “saggia, sorretta da motivazioni profonde”, e fece conoscere dell’ammirazione di Paolo VI per questo importante risultato. Il consenso del Papa venne riferito a Enrico Berlinguer, il quale commentò che Paolo VI era una saggia guida per il momento storico che attraversava l’Italia. Un giudizio che Berlinguer ha avuto modo di ribadire in altre occasioni, compresa quella della scomparsa di papa Montini nel 1978[14].

IL PROGRAMMA DELL’ECCLESIAM SUAM DEL 1964. DIALOGO CON I NON CREDENTI E DIALOGO INTERRELIGIOSO.

Paolo VI definisce la sua prima Enciclica del 1964 come una “nostra semplice conversazione epistolare”, che non vuole turbare l’opera del Concilio in atto, né vuole “rivestire carattere solenne e propriamente dottrinale”, ma semplicemente “vuol essere un messaggio fraterno e familiare”. In realtà, a una prima lettura e a distanza di tempo dalla sua stesura, è difficile immaginare un’Enciclica più densa e programmatica dell’Ecclesiam Suam[15], soprattutto se si pensi che le linee direttrici del nuovo Pontificato investono la missione della Chiesa nel rapporto con tutti gli uomini, e costituiscono la sostanza del Pontificato di Paolo VI, che prefigura l’orizzonte del suo magistero, le più grandi innovazione annunciate, i cambiamenti strutturali realizzati nel governo universale della Chiesa[16].
Il cuore del programma paolino sta nel desiderio, e nella volontà, della Chiesa di dialogare con tutti gli uomini di buona volontà. Aprire i confini della Chiesa è l’obiettivo che il Papa affida alla sua opera, lo fa con un’immagine che ci parla dei “cerchi concentrici intorno al centro, in cui la mano di Dio ci ha posti”. Il “primo, immenso cerchio, (è quello) di cui non riusciamo a vedere i confini; essi si confondono con l’orizzonte, cioè riguardano l’umanità in quanto tale, il mondo. Noi misuriamo la distanza che da noi lo tiene lontano, ma non lo sentiamo estraneo. Tutto ciò ch’è umano ci riguarda”. Sin qui, l’ispirazione giovannea, più precisamente della Pacem in Terris, che a sua volta rinvia a quell’anima naturalmente cristiana che esiste nell’uomo e che la Chiesa vuole onorare della “nostra stima e del nostro colloquio”[17].
Interlocutori specifici di papa Montini sono anzitutto i non credenti, coloro che fanno professione di ateismo, verso i quali deve mutare la prospettiva della Chiesa e del magistero pontificio. Per il Papa, “in questo cerchio sconfinato sono molti, moltissimi purtroppo, che non professano alcuna religione; sappiamo anche che molti, in diversissime forme, si professano atei”. Ricorda, in primo luogo, i danni e i guasti di ideologie, regimi e sistemi politici, che si sono fondati su un ateismo aggressivo, persecutore, come persecutori sono altre ideologie di matrice religiosa che utilizzano il nome di Dio per compiere gli stessi misfatti che hanno compiuto chi combatte il nome di Dio. Ma Paolo VI aggiunge che “se ferma e franca dev’essere l’affermazione e la difesa della religione e dei valori umani ch’essa proclama e sostiene, non è senza pastorale riflessione che noi cerchiamo di cogliere nell’intimo spirito dell’ateo moderno i motivi del suo turbamento e della sua negazione”. Qui s’innesta lo spirito profetico del Papa quando espone le cause dell’ateismo, che nascono “talora dall’esigenza d’una presentazione del mondo divino più alta e più pura, che non quella forse invalsa in certe forme imperfette di linguaggio e di culto, forme che dovremmo studiarci di rende quanto più possibile pure e trasparenti per meglio esprimere quel sacro di cui sono segno”. Ancor più, Paolo VI vuole scandagliare le motivazioni più profonde dell’ateismo moderno, perché gli atei sono spesso “invasi dall’ansia, pervasa da passionalità e da utopia, ma spesso altresì generosa, d’un sogno di giustizia e di progresso, verso finalità sociali divinizzate, surrogati dell’Assoluto e del Necessario, che denunciano il bisogno insopprimibile del Principio e del Fine divino, di cui toccherà al nostro paziente e sapiente magistero svelare la trascendenza e l’immanenza”. Infine, prosegue, “li vediamo anche talvolta mossi da nobili sentimenti, sdegnosi della mediocrità e dell’egoismo di tanti ambienti sociali contemporanei, e abili nell’usurpare al nostro Vangelo forme e linguaggio di solidarietà e compassione umana: non saremo un giorno capaci di ricondurre alle sorgenti, che pure sono cristiane, tali espressioni di valori morali?”[18]
Fermiamoci su queste parole, che hanno aperto un varco tra credenti e atei nel mondo di oggi, che vogliono chiudere con il passato. Il riconoscimento dell’altro, della sua dignità, anche se con idee contrapposte, dei valori di cui è testimone, la prima ammissione degli errori, delle carenze, dei limiti dell’azione degli uomini di Chiesa nel far sprigionare dal Vangelo tutto il suo potenziale: tutto ciò costituisce carattere strutturale del Pontificato di Paolo VI. La svolta storica di rispetto per chi professa l’ateismo, determina un salto evolutivo dal quale non si torna indietro; non è soltanto il contributo specifico di un Papa per fare dei passi in avanti, rappresenta una tappa irreversibile della modernità dalla quale non c’è ritorno, perché dall’esclusivismo si passa al dialogo. Jean Guitton coglie questo aspetto della personalità e dell’opera di Paolo VI. Paolo VI “chiedeva a ogni partner di approfondirsi, quindi anche di superarsi. Se non si possono unire visibilmente gli spiriti, si può almeno chiedere a ciascuno di mirare a una più grande purezza, una più alta perfezione. Per esempio: agli atei, di avere un “razionalismo” aperto, di non negare niente a priori; ai credenti, di avere una certezza accogliente e una comprensione per l’incertezza. Paolo VI custodiva la speranza che un giorno il pluralismo radicale sarebbe cessato, che le diversità non avrebbero più riguardato l’essenziale, che la Chiesa, luogo delle verità nella Verità, sarebbe stata abbastanza vasta per accogliere tutto”[19].
Ancora nell’Ecclesiam suam, Paolo VI delinea il secondo cerchio dell’umanità con il quale la Chiesa intende sviluppare un dialogo inedito, che è “immenso anche questo, ma da noi meno lontano: è quello degli uomini innanzi tutto che adorano il Dio unico e sommo, quale anche noi adoriamo; alludiamo ai figli, degni del nostro affettuoso rispetto, del popolo ebraico, fedeli alla religione che noi diciamo dell’Antico Testamento; e poi agli adoratori di Dio secondo la concezione della religione monoteistica, di quella musulmana specialmente meritevoli di ammirazione per quanto nel loro culto di Dio vi è di vero e di buono; e poi ancora i seguaci delle grandi religioni afroasiatiche. Noi non possiamo evidentemente condividere queste varie espressioni religiose, né possiamo rimanere indifferenti, quasi che tutte, a loro modo, si equivalessero, e quasi che autorizzassero i loro fedeli a non cercare se Dio stesso abbia rivelato la forma, scevra d’ogni errore, perfetta e definitiva con cui Egli vuole essere conosciuto, amato e servito; ché anzi, per dovere di lealtà, noi dobbiamo manifestare la nostra persuasione essere unica la vera religione ed essere quella cristiana, e nutrire speranza che tale sia riconosciuta da tutti i cercatori e adoratori di Dio”. Conclude l’Enciclica: “non vogliamo rifiutare il nostro rispettoso riconoscimento ai valori spirituali e morali delle varie confessioni religiose non cristiane; vogliamo con esse promuovere e difendere gli ideali, che possono essere comuni nel campo della libertà religiosa, della fratellanza umana, della buona cultura, della beneficienza sociale e dell’ordine civile”. Al tempo stesso, il Papa avvia il dialogo con altre religioni, perché la Chiesa non rifiuta nulla di “ciò che in queste religioni è vero e santo. Con sincera serietà essa considera quelle modalità d’azione e di vita, quei precetti e quelle dottrine che quantunque in molti punti differiscono da ciò che essa stessa crede e propone, tuttavia riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini”[20]. A far seguito a tutto ciò, Paolo VI, confermando la riforma della Curia romana alla luce dei principi dell’Ecclesiam Suam, e dei documenti conciliari, istituisce il Segretariato per i non cristiani nel 1964 (che sarà sostituito nel 1988 dal Consiglio per il Dialogo Interreligioso e dalla Costituzione apostolica Pastor Bonus del 28 giugno 1988). E aggiunge nel 1974 la Commissione per i rapporti religiosi con i musulmani (confermata successivamente da Giovanni Paolo II).
Con l’apertura inedita ai non credenti, e con l’avvio del dialogo interreligioso, si chiude una modernità vissuta dalla Chiesa in un recinto orgoglioso, segnato dall’antica dottrina dell’extra ecclesiam nulla salus, nella convinzione di una autosufficienza che Paolo VI ripone negli archivi della Chiesa. In questo modo, la dottrina cattolica si arricchisce di un universalismo prima sconosciuto, perché s’intreccia e si amalgama con culture, afflati religiosi, filosofie anche critiche verso la religione, che con il tempo influiranno sul modo d’essere e d’intendere il cattolicesimo oltre ogni confine immaginabile.

EBRAISMO ED ECUMENISMO, PER L’UNIONE DEL CEPPO EBRAICO-CRISTIANO

Dove Paolo VI rovescia il corso storico dei rapporti con le religioni è nella sua azione infaticabile per i nuovi rapporti con l’ebraismo e per la rinnovata parentela del ceppo ebraico-cristiano. Le basi teologiche della svolta storica sono contenute nella visione strategica del Concilio Vaticano II che cancella l’antigiudaismo coltivato, e realizzato giuridicamente, per secoli nel rapporto con gli ebrei. Con la Dichiarazione Nostra Aetate, e altri documenti successivi ricompone il rapporto con il popolo ebraico, riconosce che la promessa di salvezza fatta da Dio nell’Antico Testamento agli ebrei mantiene intatto il suo valore anche dopo la venuta di Cristo. Non a caso, il Viaggio in Israele nel 1964 è il primo viaggio che porta il successore di Pietro nelle terre di Gesù, e che il Papa dichiara essere un viaggio religioso, rivolgendosi alle autorità dello Stato di Israele come ai “figli del popolo dell’alleanza”, e richiamando i comuni padri della Bibbia, Abramo, Isacco e Giacobbe, evidenziando le comuni radici della fede cristiana nella religione ebraica, quasi per ricostruire il legame biblico tra cristiani ed ebrei che per tanto tempo s’era incrinato, quasi spezzato, certamente offeso da tante colpe dei cristiani[21]. Da quel momento il rapporto con gli ebrei non conosce interruzioni, si sviluppa su diversi piani. Con il documento conciliare Nostra Aetate, il riconoscimento della perenne validità della promessa biblica della salvezza al popolo ebraico pone su un piano diverso i rapporti tra cristiani ed ebrei, con il rifiuto d’ogni ostilità e concorrenzialità di conversione, con la purificazione della liturgia, nella quale dopo il primo intervento operato nel 1959 da Giovanni XXIII che elimina odiose formule, Paolo VI introduce un’altra formula del tutto diversa e teologicamente amichevole. Infine, nel 1974 Paolo VI istituisce una Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, e la associa non con il Segretariato per il dialogo interreligioso, bensì al Segretariato per l’unità dei cristiani. Ebrei, cattolici, cristiani d’ogni denominazione fanno parte della stessa famiglia che ha radici nella rivelazione biblica.

La grandezza di questo magistero subisce ancora oggi i lampi di buio dell’antisemitismo che oscurano in Europa, nella nostra Italia, nella stessa Roma, il nostro orizzonte e rattristano la nostra coscienza, e chiedono a tutti noi, a cominciare da chi insegna nelle scuole e nelle Università, di estirpare ogni minima radice di questo antico male, che definimmo nel Convegno al Senato sulla libertà religiosa come una autentica malattia dell’animo umano. Anche per questa ragione, uno dei prossimi incontri che vogliamo realizzare, sarà dedicato ai rapporti tra ebraismo e cristianesimo, perché i giovani s’interroghino su quante radici comuni abbiamo, cristiani ed ebrei, su quali ideali e principi etici possiamo contare per un lungo cammino insieme. Dobbiamo fare di più, sentirci figli di una cultura giudaico-cristiana che è base comune per ogni segmento di umanità.

Il terzo cerchio, con cui Paolo VI dialoga, è quello “a noi più vicino, del mondo che a Cristo s’intitola”. Per il Papa, “in questo campo il dialogo, che ha assunto la qualifica di ecumenico, è già aperto; in alcuni settori è già in fase di iniziale e positivo svolgimento. Molto vi sarebbe da dire su questo tema tanto complesso e tanto delicato, ma il Nostro discorso non finisce qui. Esso si limita ora a pochi accenni, e non nuovi. Volentieri facciamo nostro il principio: mettiamo in evidenza anzitutto ciò che ci è comune, prima di notare ciò che ci divide. E’ questo un tema buono e fecondo per il nostro dialogo. Siamo disposti a proseguirlo cordialmente. Diremo di più: che su tanti punti differenziali, relativi alla tradizione, alla spiritualità, alle leggi canoniche, al culto, Noi siamo disposti a studiare come assecondare i legittimi desideri dei Fratelli cristiani, tuttora da noi separati. Nulla ci può essere tanto ambito che abbracciarli in una perfetta unione di fede e di carità. Ma dobbiamo pur dire che non è in nostro potere transigere sull’integrità della fede e sulle esigenze della carità”. Paolo VI delinea un progetto ricco di ottimismo sul cammino ecumenico, e sarà lui a compiere passi storici immediati e irreversibili verso l’Ortodossia e altre Chiese cristiane. Ma non manca di manifestare subito preoccupazioni e incertezze: “intravediamo diffidenze e resistenze a questo riguardo”, segnala nell’Ecclesiam Suam, e aggiunge: “ora che la Chiesa cattolica ha preso l’iniziativa di ricomporre l’unico ovile di Cristo, essa non cesserà di procedere con ogni pazienza e con ogni riguardo; non cesserà di mostrare come le prerogative, che tengono ancora da lei lontani i fratelli separati, non sono frutto d’ambizione storica o di fantastica speculazione teologica, ma sono derivate dalla volontà di Cristo, e che esse, comprese nel loro vero significato, sono a beneficio di tutti, per l’unità comune, per la libertà comune, per la pienezza cristiana comune; la Chiesa cattolica non cesserà di rendersi idonea e degna, nella preghiera e nella penitenza, dell’auspicata riconciliazione”.

In questo modo, Paolo VI dimostra di avere una capacità di perfezione speciale, intravedendo le difficoltà che si incontreranno sulla via dell’ecumenismo. Anche nella mia vita, che singolarmente mi ha fatto incontrare fedeli di quasi tutte le confessioni religiose, riscoprire le nostre meravigliose radici ebraiche, ho sentito spesso profumo di santità in grandi personalità spirituali, di religione cattolica, ortodossa, ebraica, protestante, buddista. Ma ho anche avvertito un retro pensiero, quasi la convinzione che l’ecumenismo sia utile ma non possa superare i confini del bon ton, del diplomatismo. Nel cuore di alcuni restano vecchie diffidenze, ostilità nascoste. Ma fin quando i credenti, i cristiani, gli ebrei, non sentiranno dentro di sé una solidarietà spirituale autentica, una comunanza di figliolanza divina, l’ecumenismo e il dialogo non porterà tutti i frutti che può portare.

Se il dialogo con il primo cerchio, dei non credenti, ha posto Paolo VI all’avanguardia nell’abbattimento delle barriere tra gli uomini, l’impegno per l’unità dei cristiani vede in Papa Montini come vero campione dell’ecumenismo, con realizzazioni del tutto impensabili anche solo pochi anni prima. Tutto in Papa Montini converge nel favorire l’ecumenismo: il cattolicesimo italiano da sempre scevro da impostazioni ultramontaniste; la sua apertura alla cultura europea, in specie francese che, insieme alle asprezze di settori reazionari cattolici, presentava le aperture di Maritain[22], Gilson, Guitton, verso gli ebrei e i cristiani di altre chiese; l’esperienza nella Segreteria di Stato di Pio XII nella quale si muovevano i primi passi verso incontri con cristiani. Ma in Paolo VI è stato decisivo il coraggio, un ardore che l’ha portato a cambiare la storia dei rapporti tra Chiese cristiane. Anche solo limitandomi alle prime iniziative, assistiamo ad un susseguirsi incalzante di date, scelte, incontri, con i quali si fece più in pochi mesi di pontificato che in decenni e secoli di storia, si sanarono più ferite, vere e proprie piaghe, che la Chiesa e tante Chiese cristiane pativano e si erano inferte da sole, in tanti secoli[23].

La tenacia e il coraggio sul camino ecumenico si manifestano subito sin dalle iniziative minori[24]. Il 1° luglio 1963 il Papa incontra esponenti del patriarcato di Mosca, della Comunione Anglicana e della Comunità di Taizé, venuti per la sua incoronazione; il 10 luglio invia cinque osservatori alla IV Conferenza Mondiale di Fede e Costituzione, che si tiene a Montréal; il 14 luglio delega due vescovi a rappresentarlo alle celebrazioni per il cinquantesimo dell’episcopato di Alessio, patriarca di Mosca e di tutte le Russie.

Ma sappiamo che il gesto storico decisivo è rappresentato nel 1964 dall’incontro con il patriarca ecumenico Athenagoras I, quando i due patriarchi d’Oriente e d’Occidente si abbracciano, dopo novecento anni di separazione ecclesiale, a Gerusalemme, nella sede della Delegazione Apostolica. Le parole di Paolo VI sono commosse e programmatiche: “grande è la nostra emozione, profonda la nostra gioia, in quest’ora veramente storica, in cui, dopo secoli di silenzio e di attesa, la Chiesa cattolica e la “ortodossia” nuovamente si rendono presenti nella persona dei loro rappresentanti più alti. Le divergenze di ordine dottrinale, liturgico, disciplinare, dovranno essere esaminate, a tempo e a luogo, in uno spirito di fedeltà alla verità e di comprensione della carità (…). Di questa carità siano simbolo ad esempio il bacio della pace, che il Signore ci ha concesso di scambiare su questa terra benedetta, e la preghiera insegnataci da Gesù Cristo, che siamo sul punto di recitare insieme”. Un gesto di particolare significato è quello della funzione ecumenica realizzata a Roma, nella Basilica di S. Paolo Fuori le Mura il 4 dicembre 1965, e nella quale il Papa chiama gli osservatori “miei fratelli”, e riconosce nella omelia che la Chiesa ha nutrito in passato sentimenti non del tutto lodevoli, ma ora “abbiamo ricominciato ad amarci”, e sottolinea che “la Chiesa, nella sua meditazione secolare, ha scoperto tesori di verità e di vita, la cui rinuncia ci porterebbe ad essere infedeli”[25].

Il gesto storico definitivo si compie il 7 dicembre 1965 quando viene letto in Concilio, da mons. Johannes Willebrands, del Segretariato per l’unione dei cristiani, il testo del breve Ambulate in dilectione, con il quale Paolo VI cancella la scomunica che i legati pontifici avevano emesso nei confronti del Patriarca di Costantinopoli, Michele Cerulario, nel 1054. La solenne lettura è coronata dall’abbraccio che il Papa scambia con il metropolita di Heliopolis, Melitone, giunto in rappresentanza di Athenagoras: nello stesso momento nella cattedrale del Fanar ad Istanbul, alla presenza di sette legati papali, si svolge un’analoga celebrazione, durante la quale il segretario del Santo Sinodo legge un Tomos patriarcale, che cancella la scomunica di Michele Cerulario al Papa[26].

Oggi conosciamo gli sviluppi ecumenici realizzatisi non solo nei rapporti con l’Ortodossia, con cui la collaborazione si è fatta molto stretta, ma con tutto il mondo orientale dove è in atto una rinascenza cristiana importante e decisiva per il futuro d’Europa. Voglio ricordare gli incontri di Giovanni Paolo II con altri patriarchi, di Costantinopoli e di altre Chiese ortodosse nazionali, fino ai più recenti e solenni eventi ecumenici. Parlo dell’incontro tra Papa Francesco e il Patriarca della Chiesa Russa a Cuba nel 2016, con l’approvazione di un importante documento comune sul rapporto tra le due Chiese e sul futuro d’Europa. E dell’incontro con il Papa della Chiesa Copta al Cairo nel 2017, che vide compartecipe sempre il Patriarca di Costantinopoli in una cornice di incontri con autorità dell’Islam sunnita. Se permettete, però, voglio ricordare anche la recente visita in Russia del Segretario di Stato vaticano, il Card. Pietro Parolin, per incontrare il Patriarca di Russia Kirill e il Presidente Vladimir Putin: un evento che ha arricchito ed esteso le relazioni di Roma con il Patriarcato di Mosca, e le relazioni della Santa Sede con la Russia per una azione continua a favore della pace e del dialogo tra le Nazioni e tra gli Stati.

FEDE E RAGIONE. UNIVERSALITA’ DELLA CHIESA E DELL’ONU.

Il 4 ottobre 1965 Paolo VI compie l’ultimo gesto universalistico del biennio dei miracoli, recandosi all’ONU dove pronuncia uno storico discorso all’Assemblea Generale – presieduta da Amintore Fanfani – con il quale concilia definitivamente la Chiesa con l’Organizzazione internazionale dei popoli, e inaugura la più grande fase di apertura della Santa Sede agli Stati contemporanei e alle organizzazioni internazionali[27]. L’immagine iconografica di Amintore Fanfani e di Paolo VI all’ONU riflette anche la realtà di un’Italia che vedeva crescere il suo ruolo nel consesso delle Nazioni e di un Pontefice che estende l’abbraccio della Chiesa a tutto il mondo.
Il Papa esprime la fiducia massima della Chiesa alle Nazioni Unite, offre una solenne ratifica morale all’altissima istituzione e riconosce che essa “rappresenta in qualche modo nel campo temporale ciò che la Chiesa cattolica vuole essere in campo spirituale, unica e universale”. In uno dei discorsi più appassionati del suo pontificato, Papa Montini unisce il passato di sofferenza dei popoli al futuro di speranza: “questo messaggio viene dalla Nostra esperienza storica; noi, quali “esperti in umanità”, rechiamo a questa Organizzazione il suffragio dei Nostri ultimi predecessori, quello di tutto l’episcopato cattolico, e nostro, convinti come siamo che essa rappresenta la via obbligata della civiltà moderna e della pace mondiale”. Dichiara di parlare a nome di tutte le vittime delle guerre, evoca la voce dei morti “caduti nelle tremende guerre passate sognando la concordia e la pace nel mondo”, e di tutti coloro che sono sopravvissuti alle guerre e dei giovani che sognavano “a buon diritto una migliore umanità”. La sua voce, continua, è “la voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere e al progresso”, e formula il suo grido per la pace: “non gli uni contro gli altri, non più, non mai!”, ed evocando ancora le parole di John Fitzgerald Kennedy di quattro anni prima, conclude: « Jamais plus la guerre, jamais plus la guerre. C’est la paix, la paix, qui doit guider le destin des peuples et de toute l’humanité“, “non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei popoli e dell’intera umanità!”.
Il discorso del Papa all’ONU viene inserito, per volere dei Padri conciliari, negli atti del Concilio, e costituisce il fulcro di una svolta nelle relazioni internazionali che pone la Santa Sede al centro delle relazioni tra i popoli. Di fatto, siamo di fronte alla solenne conciliazione della Santa Sede col nuovo ordine mondiale e internazionale. Da questo momento, la partecipazione della Santa Sede alle attività di organismi collegati con l’ONU, la sua presenza diretta negli stessi e in altri organismi, conoscono una fase di espansione quasi senza limiti. Il Papa vede nella partecipazione al “governo mondiale” dell’umanità un’opportunità speciale per il dispiegamento del respiro universale della propria azione[28].
La visita del 1965 all’Assemblea Generale dell’ONU segna la discontinuità più forte nei confronti di una Chiesa collegata, per tante ragioni, all’Occidente, alla sua cultura, al suo orizzonte politico, ancora segnato dallo scontro tra Est e Ovest[29]. Paolo VI resta ancorato alla difesa dei valori di libertà e di democrazia che la divisione dell’Europa esigeva ed imponeva, in coerenza con la scelta di campo di Pio XII per la politica antitotalitaria della Santa Sede[30]. Ma l’apertura all’ONU ha un significato che va oltre lo scontro tra Est ed Ovest, e pone le basi di un universalismo politico che la Chiesa non aveva mai conosciuto. La libertà politica e d’azione che la Chiesa acquisisce le permette di muoversi sui diversi scacchieri della scena internazionale, a cominciare da quello Europeo, per il quale Paolo VI si propone non solo di favorire il superamento della logica divisionista Est-Ovest[31] ma di preparare una nuova stagione che porti alla unificazione del continente[32]. E offre un nuova visione dei rapporti tra Est e Ovest, nell’interpretare i torti e le ragioni in modo non aritmetico e pregiudiziale, come avveniva in passato, permettendo alla Santa Sede di intervenire più volte per favorire mediazioni, consigli e suggerimenti, nel superamento dei motivi di guerra, come avvenuto nel lungo corso della guerra in Vietnam[33]. Ancor più, la stagione dei diritti umani viene fatta propria, reinterpretata, dal Vaticano II, attraverso i capisaldi della libertà religiosa, affermata in Concilio come diritto universale[34] in opposizione alle condanne ottocentesche che avevano spostato il cattolicesimo su un versante antiliberale, e mediante una rilettura, si potrebbe dire biblica, dei rapporti tra i popoli e la riaffermazione del diritto delle Nazioni di tutto il pianeta ad essere direttamente protagoniste sulla scena della storia. Probabilmente è questo il cambiamento più profondo che la Chiesa di Paolo VI, sulla spinta delle intuizioni di Giovanni XXIII, compie, e che determina una svolta irreversibile di carattere antropologico e storico. Se gli uomini sono tutti eguali perché fatti a immagine e somiglianza di Dio, perché questo è alle origini il messaggio più rivoluzionario consegnato dalla Bibbia, ciò vuol dire che la storia e la civiltà appartengono a tutti gli uomini, senza differenza alcuna, e che la Chiesa deve far recuperare, in termini di diritti, beni materiali, speranza nel futuro, che tanti popoli hanno tolto a porzioni intere di umanità nel corso del cammino storico.
La Chiesa di Paolo VI non appartiene, neanche culturalmente, più a nessuno, e l’Enciclica Populorum Progressio, afferma di fronte all’umanità ciò che Paolo VI aveva già detto di fronte ai suoi rappresentanti all’ONU. Paradossalmente, la Teologia della Liberazione nel momento in cui (almeno in parte) sceglie di situare la Chiesa ancora all’interno dello scontro tra Est e Ovest, quasi attratta dalla cultura marxista per la sua dimensione rivoluzionaria, in quello stesso momento essa ridefinisce dei nuovi confini storico-politici per la Chiesa. Ma la Chiesa di Paolo VI è ormai senza confini, e si prospetta per il cattolicesimo una liberazione potenzialmente totale da ogni sudditanza politica, perché legata a una prospettiva di liberazione dell’umanità da ogni limite e da ogni oppressione, comunque denominata. Paolo VI sul punto è molto chiaro, compie scelte e formula prospettive che entrano direttamente nell’era della globalizzazione, pur in anticipo sul lessico che diverrà presto familiare.
Da quel momento il processo di liberazione da vincoli politici e culturali, è continuo e può caricarsi perfino di un’ambiguità prima sconosciuta. I passaggi di questa ambiguità sono molteplici, e si sviluppano senza sosta nel Pontificato di Paolo VI e poi in quelli successivi. La Chiesa di Paolo VI non conosce più appartenenze occidentali, eppure può in questo modo agire più liberamente nei confronti del mondo comunista e della sua Chiesa del silenzio: critica il totalitarismo di sinistra, e cerca di conquistare spazi anche limitati attraverso i piccoli e grandi passi di Giovanni XXIII e di Paolo VI, con la loro ost-politik che fa intravedere la caduta del comunismo. E Paolo VI potrà essere, nella fase della guerra fredda che ancora si situa nei tempi del suo pontificato, più libero e sciolto nei movimenti e nelle opzioni internazionali, più aderente a un messaggio sempre più stringente e vincolante di rifiuto delle guerre, di ogni guerra[35]. Più lenta, ma altrettanto sicura, è l’emancipazione della Chiesa italiana dal cattolicesimo politico nazionale, che viene conservato e custodito finché giova nell’immediato, ma presto abbandonato quando il pluralismo politico diviene il nuovo orizzonte, in Italia e in Europa, nel quale si muovono le organizzazioni cattoliche.
La Chiesa missionaria, perché tale torna ad essere la Chiesa di Paolo VI, non è più debitrice a nessuno nella sua azione planetaria, essa vive ormai cercando di costruire l’utopia, addirittura prevenendo le accuse di utopismo: “certuni giudicheranno utopistiche siffatte speranze. Potrebbe darsi che il loro realismo pecchi per difetto, e che essi non abbiano percepito il dinamismo d’un mondo che vuol vivere più fraternamente, e che, malgrado le sue ignoranze, i suoi errori, e anche i suoi peccati, le sue ricadute nella barbarie e le sue lunghe divagazioni fuori della via della salvezza, si avvicina lentamente, anche senza rendersene conto, al suo Creatore”[36]. È sostenitrice dei diritti umani ovunque, ma nel tempo si trova a difendere i diritti umani solidali contro quelli derivati dal relativismo, specie in materia di famiglia, filiazione, condizione femminile, sulla base del rifiuto antropologico di Paolo VI d’ogni forma di nichilismo, come risulta evidente nell’Enciclica Humanae Vitae. Acquisisce una libertà di azione politica e diplomatica senza rete nel momento in cui, con Paolo VI, relativizza a sua volte il valore dei diversi regimi politici e sociali. Al centro del sistema di valori internazionali sono posti i grandi obiettivi umanitari della Santa Sede, il perseguimento della pace sempre e dovunque, il valore della giustizia che con la Populorum Progressio diviene l’architrave della politica e della diplomazia pontificia[37], infine il valore della misericordia, enfatizzato da Papa Francesco sulla scia del magistero di Paolo VI, che finisce per polverizzare ogni residua collocazione geo-politica della Santa Sede, fino a colorare d’utopia scelte e decisioni politiche della Santa Sede nelle grandi istituzioni internazionali.

COLLEGIALITA’ E UNITA’ NEL GOVERNO DELLA CHIESA. COSCIENZA DELLA FUNZIONE PETRINA.

Nell’aprire al dialogo con il mondo, i non credenti, le religioni non cristiane, per l’ecumenismo[38], Paolo VI è stato il Papa del coraggio, che ha indicato nuove strade per il futuro, che oggi percorriamo con tante difficoltà e sofferenze nei rapporti tra religioni. Invece, nel riformare le strutture di Governo della Chiesa universale, Paolo VI è il Papa che ha agito con “prudente arditezza”, ma di più, ha realizzato il programma, il suo progetto riformatore, con risultati dei quali ancora oggi gli siamo debitori. Il progetto di un nuovo Governo della Chiesa è fondato dall’inizio sulla visione strategica dei tre cerchi nei quali si distribuisce l’umanità, con strutture ed organismi che sono stati creati dalla Costituzione apostolica Regimini Ecclesiae Universae, e che hanno investito e coinvolto i rapporti con i non credenti, le altre religioni, le Chiese cristiane. Ma c’è un punto, già segnalato lucidamente nell’Enciclica Ecclesiam Suam, sul quale Paolo VI interviene ripetutamente in prima persona per salvaguardare quel continuum irrinunciabile nella storia della Chiesa e del suo governo: si tratta della tutela della funzione petrina in relazione alla quale, anche per la propria persona, presenta salda e totale consapevolezza.
Nel contesto del suo orizzonte programmatico, l’Enciclica del 1964 afferma che, anche solo l’ipotesi di una rimozione del primato del papa sarebbe priva di ogni consistenza, e ciò “non soltanto perché, senza il Papa, la Chiesa cattolica non sarebbe più tale, ma perché, mancando nella Chiesa di Cristo l’Ufficio pastorale sommo, efficace e decisivo di Pietro, l’unità si sfascerebbe; e indarno poi si cercherebbe di ricomporla con criteri sostitutivi di quello autentico, stabilito da Cristo stesso: “Vi sarebbero nella Chiesa tanti scismi quanti sono i sacerdoti” scrive giustamente S. Girolamo (Dial. Contra Luciferianos, PL XXIII, 173)”. Quasi in una sorta di premonizione di quel vento di contestazione che investirà appieno la Chiesa e il suo Pontificato l’Enciclica ammonisce: “lo spirito d’indipendenza, di critica, di ribellione male si accorda con la carità animatrice della solidarietà, della concordia, della pace nella Chiesa, e trasforma facilmente il dialogo in discussione, in diverbio, in dissidio, spiacevolissimo fenomeno, anche se purtroppo assai facile a prodursi, contro il quale la voce dell’Apostolo Paolo premunisce: “Non vi siano tra voi degli scismi”(1 Cor. 1, 10).
La questione della funzione petrina, del ruolo del Pontefice nel governo della Chiesa, si pone presto in Concilio nell’oscillazione tra le tradizionali tendenze ultramontaniste e quelle più antiche ma sempre vive aspirazioni conciliariste, e Paolo VI interviene direttamente e personalmente con una capacità direttiva e una sapienza giuridica, che pochi si sarebbero attesi, se non avessero conosciuto la sua formazione e attività curiale, in particolare la vicinanza come stretto collaboratore di Pio XII. Paolo VI non attende che il Concilio si impegni in discussioni complicate e rischiose, e il 16 novembre 1964, interviene attraverso il Segretario generale del Concilio Mons. Pericle Felici con una Nota Esplicativa praevia, che verrà allegata agli Atti conciliari, e alla luce della quale deve essere letto e interpretato il terzo capitolo dello schema De Ecclesia[39].Il Concilio coglie subito la gravità del momento e il carattere strategico della Nota praevia , nella quale si delineano, al di là di ogni ragionevole dubbio, i rapporti intercorrenti tra il primato pontificio e la struttura del collegio episcopale. Si dichiara, anzitutto, con riferimento al termine “Collegio” e ai suoi componenti, che si diviene membri nel Collegio in virtù della consacrazione episcopale, mediante la comunicazione gerarchica con il capo del Collegio e con le membra, e che la consacrazione rendeva cronologicamente partecipi dei munera sacra propri del Collegio in comunione con il papa. Si ribadisce quindi che il Collegio non esiste senza il suo capo, il romano pontefice, vicario di Cristo e Pastore della Chiesa universale, il quale poteva esercitare la sua potestà in ogni momento e a suo piacimento. La consapevolezza della gravità del momento era chiara a tutti, perché “i Padri seguirono la lettura della Nota in straordinario silenzio, consci della solennità e della straordinarietà dell’intervento pontificio”[40].
Probabilmente è questo uno dei momenti più alti del pontificato di Paolo VI, nel quale s’innestano e attivano le tante riforme della struttura istituzionale della Chiesa, movendo da quel concetto di partecipazione che si estende a diverse componenti ecclesiastiche ed ecclesiali, sempre tutelando il principio d’autorità e di unità del Governo, contro rischi di dissolvimento e di dispersione. Il sapiente equilibrio realizzato da Paolo VI tra i princìpi d’unità e di partecipazione costituisce l’eredità più solida, e convinta, lasciata a una Chiesa che stava per vivere una delle fasi più convulse della sua dinamica interna[41]. Papa Montini trasforma la Curia come non era mai stata riformata sino ad allora, pone le basi, e poi realizza, una struttura come il Sinodo dei Vescovi, che adegua, e accosta, il governo della Chiesa all’episcopato di tutto il mondo, dà forza e stabilità alle Conferenze episcopali nazionali mediante le quali il metodo della sinodalità s’estende agli organismi rappresentativi delle nazioni del mondo.
S’è già detto quanto la formazione di Giovanni Battista Montini sia stata plasmata dalla collaborazione, con Pio XI e Pio XII, nel governo della Chiesa, e quanto abbia giovato alla sua elevazione al Pontificato il rapporto sempre più intenso che si consolidò con Angelo Roncalli, il quale, subito dopo essere stato eletto Papa, il 28 ottobre 1958, lo crea Cardinale il 17 dicembre dello stesso anno[42]. La convinzione che Giovanni Battista Montini sarà il successore di Giovanni XXIII, cresce e si consolida nel tempo, avvalendosi anche di chiari segni di predilezione manifestati da Papa Roncalli. Ha un particolare significato il fatto che tra i primi appunti di Paolo VI si trova una riflessione personale sul mistero della elezione petrina: “Intanto la meditazione continua nello stupore di ciò ch’è avvenuto. Potevo, dovevo evitare? “Signore, Tu sai tutto”. Mi pare che i fatti erano più fuori di me; e che in me vi fosse una sincera e tacita preghiera di essere risparmiato, ma insieme il proposito di non commettere viltà e di fare oblazione, ancora della mia povera vita. “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Gli disse Simon Pietro: “Signore, non solo i piedi ma anche le mani e il capo”. Così andò, così agisce il Signore: lo sguardo intenzionale anche sulla piccolezza infinitesimale”[43].
Giovanni Battista Montini era consapevole della prossima chiamata al soglio pontificio. Utilizzando nuovamente il concetto di “gioco”, Paolo VI afferma nel 1972: “parve allora a noi d’essere sopraffatto dal gioco, meccanico e misterioso che fosse, d’una vicenda estranea e superiore alla nostra volontà; non avevamo mai minimamente desiderato, né tanto meno favorito la nostra elezione. Ci si vorrà credere”[44]. Ma la consapevolezza della funzione petrina cui è chiamato, induce Paolo VI prima a confessare la propria tremenda solitudine che deve vivere, poi di vivere lo sforzo continuo di guidare la Chiesa universale nei momenti decisivi del pontificato[45]. La solitudine “totale e tremenda” induce Paolo VI a percepire, e accettare, il peso delle proprie responsabilità: “mio dovere è quello di decidere, di assumere ogni responsabilità, di guidare gli altri. Non devo avere paura”[46]. Ancora negli Appunti personali si delinea la missione di Pietro, confirma fratres tuos: “tocca a Pietro mostrare se stesso fortis in fide, franco e sicuro, ardito nella prudenza, senza dubbi e senza timore, pieno di fede e di Spirito Santo, capace di sintesi e di azione, esposto al rischio e al sacrificio”. E tocca a lui “infondere nei fratelli la certezza profetica, l’energia, il coraggio, la letizia, la fede e la speranza e la carità in Cristo Signore, affermate nella coesione interiore alla Chiesa e nell’annuncio interpretativo e operativo di salvezza a contatto col mondo”[47].
Se non si comprende questo profilo della personalità di Paolo VI, si finisce per cedere a quella vulgata, per la quale egli fu un Papa incerto, ambiguo, spesso incapace di prendere decisioni sicure, sofferente per quanto ha fatto e deciso, e che ha saputo trasmettere all’esterno l’aspetto meno ottimistico della sua personalità. La realtà, la personalità del Papa, la sua opera a favore della Chiesa sono esattamente il contrario.

UNA FRENESIA LO PRENDE, UNA VERTIGINE, TALORA UNA FOLLIA LO INVADE. MA PAOLO VI CHIUDE TANTE FERITE DELLA STORIA.

A conferma del carattere forte e deciso di Paolo VI, sovviene la ruvidezza, la sistematicità, con la quale alcune componenti del dissenso ecclesiale dell’epoca scelgono il Papa come un vero bersaglio, per criticare, corrodere la sua azione, il suo sforzo di tenere unita la Chiesa.
Non è agevole riassumere le linee, e gli episodi, della contestazione che Paolo VI ha dovuto subire[48]. Basterà ricordare che le critiche scivolano presto sul piano personale, quand’è accusato di volta in volta d’essere “massone, filocomunista”, o “debole, restauratore, conservatore”[49]. Un’eco notevole hanno le scelte del monaco benedettino Giovanni Franzoni, Abate dell’Abbazia di San Paolo Fuori le Mura, che dà vita per diversi anni a una contestazione continua, aspra, su quasi tutte le scelte della Santa Sede, dal Concordato alla guerra in Vietnam, dal divorzio all’aborto, al celibato, al carattere oppressivo della disciplina ecclesiastica, e via di seguito: esse portano nel 1974 alla sua sospensione a divinis, poi alla riduzione allo stato laicale. Sulla scia di Dom Franzoni, ma anche in via autonoma, altri ecclesiastici come don Enzo Mazzi, danno via a comunità di base che tendono a creare strutture alternative a quelle cattoliche parrocchiali; per don Mazzi “ubbidire alla gerarchia cattolica significa quasi sempre disubbidire alle esigenze più profonde, vere e evangeliche del popolo”[50].
A un livello diverso, emergono incomprensioni tra la Santa Sede e personalità come il Cardinale Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino dal 1967 al 1977, che sottolinea spesso la volontà del Papa di sminuire i contenuti innovativi del Concilio e di bloccare la ricerca teologica[51]. Alla morte di Paolo VI, il Cardinale vuole rimarcare: “io ho amato profondamente Paolo VI e inginocchiandomi presso la sua salma ho pianto con tutto il cuore; ma devo dire che le cose amare che ho sentito di dovere di dirgli, gliele ripeterei ancora tutte, anche oggi parola per parola per il bene della Chiesa”. La posizione di Pellegrino riflette una dimensione più vasta della contestazione che investe di volta in volta la Chiesa d’Olanda per motivi teologici, più disponibile a una concezione razionalistica del messaggio evangelico, o, al contrario il vescovo francese Marcel Lefèbvre che rimproverava la Chiesa di Roma, Paolo VI in particolare, di cedere a correnti moderniste, e di contraddire la dottrina tradizionale della Chiesa: con la Chiesa olandese i dissensi sono rientrati, con Lèfebvre e la sua comunità di Écône si è consumato uno scisma che si stenta ancora a superare.
Diversa ancora la problematica che emerge con il formarsi della Teologia della liberazione, la quale si presenta come un vasto movimento teologico, culturale, e politico, che tende a reinterpretare l’orizzonte della salvezza cristiana in chiave non soltanto escatologica ma immediatamente politico-rivoluzionaria. Animata da teologi sud americani come Gustavo Gutierrez, Hélder Câmara, Leonardo Boff, questa corrente di pensiero ottiene un sostegno intellettuale anche in correnti della c.d. teologia politica di matrice mitteleuropea, soprattutto alimenta nel tempo movimenti e azioni politiche di grande rilievo nell’America del Sud che coinvolgono importanti personalità laiche ed ecclesiastiche[52]. Sul tema Paolo VI interviene più volte anche con importanti documenti, ribadendo che il messaggio cristiano non è rivolto solo alla salvezza ultraterrena ma coinvolge e alimenta anche una liberazione umana, fondata sulla dignità della persona e sui diritti: essa, però, deve comunque salvaguardare la dimensione escatologica del cristianesimo che interessa il destino dell’uomo nel suo complesso, ed evitare lo scadimento politico della presenza cristiana nei Paesi del terzo mondo e nelle Nazioni emergenti nella incipiente fase della globalizzazione. Probabilmente, la risposta di Paolo VI alla Teologia della liberazione costituisce nel XX secolo la più sapiente e illuminata elaborazione che sia stata concepita per attrezzare la Chiesa nei confronti di un movimento di dimensioni mondiali, salvaguardando il principio unitario e insieme la sua capacità rivoluzionaria.
La risposta di Paolo VI, di conseguenza, di fronte a sommovimenti molto diversi, alcuni autenticamente contestatori e distruttivi, altri animati da ispirazione e volontà autenticamente riformatrici, ha avuto un duplice livello. Da un lato, quello volto a recepire tutto ciò si muove nell’orizzonte del Concilio Vaticano II e della sua ispirazione innovatrice, anche prefigurando ulteriori cambiamenti; dall’altro quello di difendere la Chiesa dai rischi di disgregazione, mentre riappaiono i fantasmi dello scisma, lo scadimento di costumi ecclesiastici tradizionali, in Occidente e, con una peculiarità loro, in America Latina[53], e dolorosi affievolimenti nella capacità d’azione d’importanti ordini religiosi come quello della Compagnia di Gesù, tradizionalmente e istituzionalmente legato alla Santa Sede e alla persona del Pontefice.
In contrasto con l’immagine di Papa incerto, che si piega sotto i colpi del dissenso, interno ed esterno alla Chiesa, Paolo VI affronta i temi della contestazione ecclesiale che sono stati tanti e diversi. Su di essi si sofferma, tra l’altro nell’udienza generale del 15 gennaio 1969, con un’analisi approfondita, non esente da riflessioni psicologiche di grande rilievo, di cui si comprenderà l’importanza nei tempi successivi[54]. Paolo VI osserva che “l’uomo ha acquistato la coscienza sia delle deficienze in cui si svolge la sua vita, sia delle possibilità prodigiose con cui si possono produrre mezzi e forme nuove di esistenza, egli non sta più tranquillo: una frenesia lo prende, una vertigine lo esalta, e talora una follia lo invade per tutto rovesciare (ecco la contestazione globale) nella cieca fiducia che un ordine nuovo (parola vecchia), un mondo nuovo, una palingenesi ancora non bene prevedibile sta per sorgere fatalmente”[55]. Il Papa dichiara che “non saremo noi a contestare del tutto questa contestazione, questo bisogno di rinnovamento, che per tante ragioni ed in certe forme è legittimo e doveroso”, e invita a considerare lo stesso evento conciliare quasi come una riprova della necessità di un rinnovamento generale: “che il Concilio abbia avuto e abbia tuttora come suo fine generale un rinnovamento di tutta la Chiesa e di tutta l’attività umana, anche nella sfera profana, è verità che traspare da ogni documento e dal fatto stesso del Concilio medesimo; ed è appunto opportuna la domanda se noi abbiamo bene riflettuto su questo scopo principale del grande avvenimento. Anch’esso s’iscrive nella grande linea del movimento trasformatore moderno, del dinamismo proprio del nostro periodo storico. Anch’esso tende a produrre un rinnovamento. Ma quale rinnovamento?”.
Con questa domanda cruciale, Paolo VI colloca il Concilio al centro del generale movimento riformatore della modernità, e lo definisce evento religioso e cattolico, sottolineando però senza equivoci quali possono essere le deviazioni di una contestazione senza frutti. A questa domanda il Papa risponde in modo così netto da cancellare l’immagine stereotipata di Paolo VI piegato alle ingenerose critiche che gli vengono continuamente rivolte. Prosegue, infatti, sostenendo che “la risposta è complessa, perché molti sono i settore ai quali il rinnovamento vorrebbe applicarsi; e questa molteplicità ha dato pretesto anche ad arbitrarie intenzioni, le quali si vorrebbero attribuire al Concilio, come l’assimilazione della vita cristiana al costume profano e mondano, l’orientamento, così detto orizzontale, della religione, rivolta non più al primo e sommo amore e culto di Dio, ma all’amore e al culto dell’uomo, la sociologia come criterio principale e determinate del pensiero teologico e dell’azione pastorale, la promozione d’una presunta, inconcepibile “repubblica conciliare”; e così via”[56].
Paolo VI individua più volte i rischi d’una contestazione distruttiva, che non favorisce le riforme necessarie ma induce al dissolvimento di quanto s’è costruito nella storia millenaria della Chiesa: “l’interesse per il rinnovamento è stato da molti rivolto alla trasformazione esteriore e impersonale (…), alla accettazione delle forme e dello spirito della Riforma protestante, piuttosto che a quel rinnovamento primo e principale che il Concilio voleva, quello morale, quello personale, quello interiore”[57]. Dunque, nel pieno della sua attività riformatrice, nella Chiesa e nei rapporti della Chiesa con il mondo, Paolo VI conferma i capisaldi della fede cristiana e delle strutture di governo della Chiesa universale. E dimostra, di fronte alle ricorrenti crisi, di opposta tendenza, la capacità, e la fermezza, di risposta a chi supera i limiti del velleitarismo che pone a rischio il volto della Chiesa, aperta invece alla discussione, ma anche ferma nel respingere ogni intento dissolutore[58]. Noi tutti sappiamo, per primi gli studenti presenti a questo Convegno, che è sempre esistita nella Chiesa una tentazione formidabile, quella di trasformarla in una realtà (lato sensu) democratica, come avvenne in certo qual modo, in circostanze eccezionali, con il Concilio di Costanza, dopo il grande scisma d’Occidente. La subalternità del Papa al Concilio, definita con il Decreto Haec Sancta Synodus, l’obbligo d’indire con scadenza periodica ravvicinata l’assise conciliare, quasi come si sarebbe fatto più avanti nelle sessioni parlamentari delle nascenti democrazie, delineano a Costanza i tratti d’una sorta di democrazia ecclesiale. Ma conosciamo anche le conseguenze disastrose di quel periodo, e con questa consapevolezza, sappiamo tutti oggi che non vogliamo, non possiamo, desiderare una Chiesa democratica, bensì una Chiesa sempre più spirituale. Sappiamo che una Chiesa democratica diventa parte e fazione della società, e per dirla con una battuta finirebbe col fare le primarie, finiremmo un giorno per andare a votare con le primarie, per il parroco e per il vescovo, distruggendo così quanto di positivo la Chiesa deve invece realizzare se vuole essere fedele a se stessa.
È bene osservare che già nell’udienza del dicembre 1969 Paolo VI si chiede: “dov’è la Chiesa che noi amiamo, che noi desideriamo? Quella di ieri era forse meglio di quella di oggi? E quella di domani quale sarà? Un senso di confusione sembra diffondersi anche nelle file dei migliori figli della Chiesa, talora anche fra i più studiosi e i più autorevoli; si parla tanto di autenticità; ma dove la possiamo trovare, mentre tante cose caratteristiche, alcune anche essenziali, sono messe in discussione? Si parla tanto di unità, e molti cercano d’andare per conto proprio. Di apostolato: e dove sono gli apostoli generosi ed entusiasti, mentre le vocazioni diminuiscono e fra il laicato cattolico stesso si affievolisce la coesione e lo spirito di conquista (…)? Un senso di incertezza percorre, come un brivido febbrile, il corpo ecclesiale; è mai possibile che questo paralizzi nella Chiesa cattolica il suo carisma caratteristico, quello della sicurezza e del vigore?”[59].
Possiamo allora concludere che Paolo VI è stato, pur nella bufera del dissenso e della spinta critica oltre ogni misura, il più grande Papa riformatore della modernità. Quegli anni, mi riferisco agli anni ’60-’70, sono stati anni tumultuosi, non negativi come pretendono a volte i conservatori senza speranza, ma pieni di fiducia e ricchi di riforme in ogni campo. È stata un’epoca guidata non a caso da personalità come Paolo VI, Aldo Moro, Enrico Berlinguer, Amintore Fanfani, ciascuno dei quali, in un caleidoscopio apparentemente incomprensibile e frastagliato, svolge un ruolo pieno di passione ed equilibrio, innovazione e saggezza. Questi termini sembrano ossimori ma sono complementari, perché la passione è necessaria per cambiare il mondo, ma non è sufficiente, mentre l’equilibrio e la prudenza realizzano poi i sogni dell’utopia: l’innovazione spinge ad agire ma la saggezza garantisce che essa si realizzi, non resti solo una parola.
Da questa angolazione, possiamo comprendere la grandezza di Paolo VI che è stato il Papa che ha sanato le ferite della storia, dentro e fuori la Chiesa. Ha sanato antiche piaghe per le divisioni tra le Chiese affermando che “l’enterprise la plus mystérieuse et la plus importante de son ministère c’est l’oecuménisme”. Ha proclamato, chiudendo i capitoli di tanti Sillabi della storia cristiana, la libertà religiosa come diritto inerente la dignità umana. Ha elevato, più che in altre epoche, l’eguale dignità dei i popoli, e proclamato la giustizia come valore universale: ha scritto il lessico di una modernità libera e solidale, quel lessico che dopo tanti anni noi ancora usiamo per parlare di noi stessi, del nostro futuro, per spingerci a migliorarci con fiducia.
A queste riforme sono seguite tante altre, ne ricordo una che ha cancellato uno strumento di controllo del pensiero, che ai giovani non dice niente, ma chiude un capitolo plurisecolare, uno strumento che ai tempi della mia giovinezza appariva ridicola e grottesca: parlo della abolizione dell’Indice dei libri proibiti, istituito nel 1559 da Paolo IV e abolito il 14 giugno 1966. L’Index librorum prohibitorum, finalizzato tra l’altro a mantenere e difendere l’integrità della fede, esaminare e proscrivere gli errori e le false dottrine”, s’è rivelato nel tempo, lo strumento più ottuso del potere clericale, con risultati che ai nostri occhi, ma anche agli occhi dei contemporanei delle diverse epoche, non si sa se definire più esilaranti o grotteschi. È noto, anche se molti giovani non lo sanno, che finirono all’Indice i più grandi scrittori, filosofi, e le più eccellenti opere della nostra letteratura, comprese quelle delle più grandi personalità cattoliche. Condannati dall’Indice sono stati, per ricordare alcuni, accompagnati da un crescendo rossiniano, Dante Alighieri, per il De Monarchia, Niccolò Machiavelli, Francesco Bacone, Honoré De Balzac, Henri Bergson, Cartesio, Alexandre Dumas, padre e figlio, Gustave Flaubert,Victor Hugo, Immanuel Kant, Montaigne, Montesquieu, Blaise Pascal, Pierre-Joseph Proudhon, Jean-Jacques Rousseau, Stendhal, Émile Zola. E ancora Vittorio Alfieri, Cesare Beccaria, Ernesto Buonaiuti, Benedetto Croce, Antonio Fogazzaro, Vincenzo Gioberti, Ugo Foscolo, Galileo Galilei, Giovanni Gentile, Giacomo Leopardi, Enea Silvio Piccolomini (eletto poi come papa Pio II), Antonio Rosmini, Niccolò Tommaseo, Pietro Verri, Aldo Capitini, e via di seguito.
Si potrebbe quasi dire che la Chiesa ha finito per mettere all’Indice sé stessa, considerando che ha condannato autori e personalità laiche e cattoliche che costituiscono oggi l’espressione della cultura umanistica che ha superato i tempi della propria stagione ed è entrata tra le opere universali del pensiero umano[60]. Né dobbiamo pensare che all’epoca di Paolo VI l’Indice fosse un vecchio arnese del passato, anche perché il provvedimento di abolizione venne personalmente caldeggiato da Paolo VI nonostante l’opposizione di importanti ecclesiastici, e la mentalità di controllo guardingo era ancora in auge[61]. L’attenzione di Paolo VI per la libertà della cultura è, tra l’altro testimoniata dalla richiesta di perdono che egli rivolge agli Artisti, quando si rivolge loro affermando;: “vi abbiamo talvolta messo una cappa di piombo addosso, possiamo dirlo; perdonateci! Rifacciamo la pace? Quest’oggi? Qui? Vogliamo ritornare amici?”. Sono parole nelle quali si assomma la delicatezza dello stile di Paolo VI, e insieme la forza riformatrice di chi dice, senza esitazione, che dobbiamo cambiare pagina.
Per me, poco più che ventenne, che studiavo avidamente la storia, Paolo VI rappresentò come un raggio di luce che diradava le ombre del passato, quelle che mi sono ritrovato a insegnare ai giovani per tanto tempo, come qualcosa che non deve mai dimenticare. Diradava l’ombra dei patimenti, inflitti dalle Chiese cristiane agli uomini, cristiani e non, per le inquisizioni, le guerre di religione, l’alleanza con il potere e l’assolutismo, che peseranno sulle Chiese che ne sono state responsabili. Altrettanto peserà, perché non s’è dileguata del tutto, l’ombra dell’alterigia e del clericalismo, che Papa Francesco ha richiamato, ad esempio il 17 maggio 2017 nel viaggio di ritorno da Fatima, ricordando che “il clericalismo allontana la gente”, “il clericalismo è una peste nella Chiesa”. Paolo VI ha fatto i conti con molti di questi mali, ha fatto i conti con il passato, e in effetti, le grandi riforme, strategiche e settoriali che egli ha realizzato, sono le migliori risposte agli errori del passato, ma anche le più solide basi per una Chiesa che vuol essere fedele all’Evangelo che deve diffondere[62].

PROFEZIA E STORICITA’ NEL MAGISTERO DI PAOLO VI. SACERDOZIO, CELIBATO, I TEMPI DELLA STORIA.

È opinione maggioritaria, in una pur vastissima letteratura su Paolo VI, che il suo pontificato possa dividersi in due fasi, la prima riformatrice, ispirata a idealità e obiettivi d’innovazione diretti a cambiare il volto della Chiesa in accordo con i principi della modernità, e laicità, la seconda ripiegata in sé stessa, quasi prigioniera di un conservatorismo privo di aperture. Si tratta, però, di valutazioni diacroniche, sul rapporto riformismo-conservatorismo nel papato di Paolo VI. Dal punto di vista dei contenuti la fase pessimista viene riferita a due encicliche tra loro vicine nel tempo la Sacerdotalis coelibatus del 24 giugno 1967, e l’Humanae Vitae del 25 luglio 1968, che sono entrambe confermative della tradizione celibataria, e degli orientamenti etici in tema di matrimonio e sessualità. Sennonché, lo spartiacque cronologico tra le due fasi non coincide con l’esplosione della contestazione, dentro e fuori la Chiesa, che nel 1967 si poteva considerare agli inizi, non ancora nella sua vera deflagrazione. Ancor meno lo spartiacque ha fondamento cronologico in quanto il 1967 è proprio l’anno della più grande e innovativa Enciclica di Paolo VI, la Populorum progressio, che riflette al massimo grado la grande spinta riformatrice del Concilio e del Papa.
Neanche il presunto ripiegamento potrebbe riferirsi ai primi anni’70, nello stato avanzato della seconda parte del pontificato. Anche perché, come già accennato, il magistero paolino prosegue con accenti gravi a denunciare le ingiustizie, le iniquità, gli squilibri, che caratterizzano i rapporti tra i popoli, tra gli Stati. In particolare nel 1972, si ricordano interventi nei quali Paolo VI sottolinea i motivi di delusione che derivano dal contesto di violenza, ed eventi drammatici, che segnano la vita internazionale. Nella giornata della Pace, il 1° gennaio 1972, Paolo VI si chiede: “un ordine imposto con la forza, la prepotenza, la paura, la minaccia, il ricatto, l’abuso della debolezza altrui, l’abitudine invalsa di mantenere situazioni dove la gente soffre, dove non può nemmeno sollevarsi e migliorare la propria esistenza … è ordine vero? La schiavitù è ordine vero? La miseria sociale è ordine vero? La povertà senza rimedio e senza assistenza, è ordine vero? L’ignoranza voluta del popolo per tenerlo più facilmente soggetto, è ordine vero? Il dominio e lo sfruttamento dei forti sui deboli, dei ricchi sui miseri, è ordine vero?”[63]
Nell’omelia per la solennità degli apostoli Pietro e Paolo, il 29 giugno 1972, il Papa rileva una “onda di profanità, di desacralizzazione, di secolarizzazione”, constata che questa ondata di sfiducia, e di abbattimento, coinvolge direttamente la Chiesa, e fa nascere “il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto. Non ci si fida più della Chiesa”; aggiunge che “è entrato il dubbio nelle nostre coscienze, ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza”. Invece, in un appunto del maggio 1968, Paolo VI dichiara di voler essere “ardito nella prudenza, senza dubbi e senza timore, pieno di fede e di spirito, capace di spirito e di azione, esposto al rischio e al sacrificio”. Riflettiamo con attenzione sul ciclo temporale complessivo che ha segnato il Pontificato di Paolo VI, il quale viene a trovarsi tra la grande contestazione in Occidente e l’emancipazione dei popoli nel mondo intero. Nel pieno della contestazione Paolo VI realizza le più grandi riforme, elabora in anticipo sui tempi la dottrina sociale universale, fino a intravedere e prefigurare i problemi dell’era della globalizzazione, con una lungimiranza, e uno spirito profetico, che non l’abbandoneranno mai.
Dobbiamo, però, guardare anche al merito della critica a Paolo VI per il suo presunto conservatorismo, che trova fondamento alcuno nei contenuti del suo magistero. Occorre, infatti, evitare di ritenere la Chiesa perfetta, che ha sempre ragione, su qualunque argomento il magistero si pronunci: è un errore, non rende onore alla Chiesa e a chi la guida. Non solo perché non è vero, se riferito ai grandi ritardi, ed errori compiuti nel corso della storia, ma perché non fa capire l’evoluzione nella quale siamo immersi tutti noi.
Questo rapporto tra storicità e profezia, e i limiti dell’azione della Chiesa nella storia, richiama necessariamente il grande tema della laicità su cui è imperniato buona parte del Corso di insegnamento sui rapporti tra Stato e Chiesa per i nostri studenti. Gli studenti sanno che io cerco di far coincidere, almeno in prospettiva, il concetto di laicità con quello di obiettività, che s’oppone a ogni faziosità e idolatria, i cui confini spesso si confondono. Ogni tanto dico ai miei studenti, con quelle frasi che scappano un po’ dal cuore, che non dobbiamo mai cedere all’idolatria, nessuno dev’essere idolo per la nostra mente. E non ho certo bisogno di ricordare che questa era la grande lezione di John Henry Newman, che ricorre negli scritti e nelle conversazioni di Paolo VI, per il quale il sommo bene è la libertà di coscienza, ed esistono “casi estremi nei quali la coscienza può entrare in conflitto con la parola del Papa e che, nonostante questa parola, debba essere seguita”[64]. Tra l’altro, questo insegnamento mi fu trasmesso, nella mia felicissima e cattolicissima infanzia, proprio dai preti secolari che tanto influirono sulla mia educazione[65]. Guai, quindi a credere che Paolo VI non sia stato anch’egli figlio del suo tempo; il punto cruciale è che la sua spinta propulsiva ha contribuito a far cambiare profondamente il corso delle vicende storiche.
Con questo spirito ci soffermiamo su due documenti discussi del pontificato dei Paolo VI, uno relativo al Celibato ecclesiastico, l’altro, l’Humane Vitae, che ha affrontato i temi dell’antropologia, della sessualità, ma questi testi vanno letti con attenzione, cogliendone il significato più intimo. Sappiamo che la regola del celibato non ha fondamento divino, ha una dimensione e un’origine storica, e sappiamo che nei tempi più recenti ha subito eccezioni. Tuttavia, problemi di questa dimensione non si risolvono con un sì o con un no, come uno spartiacque che divida modernità e tradizione in modo netto. Il fatto che il celibato derivi da una norma di diritto umano è importante: se ne può parlare con intelligenza esaminando i suoi diversi profili, etici, umani, sociologici. Ma dobbiamo anche sapere che l’abolizione del celibato cambierebbe profondamente la Chiesa, l’immagine del clero, la sua funzione nella comunità ecclesiale e civile. Avremmo una Chiesa diversa, questo dobbiamo saperlo.
Siamo di fronte a un problema che subisce l’influenza della storia, se ne può chiedere un aggiornamento, perché esistono vie intermedie tra il celibato come regola universale e la sua abolizione. Esiste anzitutto la via maestra tradizionale seguita dalle Chiese Ortodosse nelle quali vige una sorta di ‘doppio binario’ tra chi rinuncia a sposarsi e chi opta per il matrimonio, con conseguenze canoniche notevoli. Esistono, poi, eccezioni non secondarie per la Chiesa cattolica, come quelle che esenta dal celibato i ministri di alcune Chiese cattoliche d’Oriente, e l’altra più recente per i pastori che dall’anglicanesimo scelgono di entrare nella Chiesa cattolica, e che possono essere confermati sacerdoti pur essendo sposati. Per questa ragione, per quella saggezza che era propria di Paolo VI, sempre attento a cogliere i segni dei tempi che cambiavano, possiamo guardare al futuro con una mentalità aperta, pronti a possibili innovazioni, che a volte maturano lentamente ma che possono, come ha insegnato Papa Francesco, venire annunciate e realizzate quasi all’improvviso.

ETICA, FAMIGLIA, SESSUALITA’, ANTROPOLOGIA SOLIDALE.
PAOLO VI CONTRO IL NICHILISMO
DELLA DISSOLUZIONE.

Un altro argomento, affrontato da Paolo VI, è legato anch’esso alla storicità e all’evoluzione umana, ma in parte molto minore, perché riguarda la dimensione antropologica della sessualità e della famiglia. Paolo VI compie una scelta su una problematica poliedrica, che ad alcuni è parsa anacronistica, o regressiva, soprattutto (ma non solo) nel vasto mondo della contestazione. La critica si fonda sul fatto che l’Enciclica Humanae Vitae conferma la dottrina cattolica che collega la sessualità alla procreazione, la famiglia alla dimensione dell’amore e al fluire delle generazioni, respinge pratiche che separano le due realtà e intervengono con violenza sul processo procreativo.
Oggi noi siamo in grado di valutare meglio, cogliendone la profondità, le linee direttrici dell’Enciclica di Paolo VI. Naturalmente ribadendo che il documento paolino affronta temi etici fondamentali, oggetto di riflessione alla luce dei progressi della scienza, e che possono essere visti con diverse sensibilità culturali, meritevoli di aggiornamenti. Ma c’è oggi un profilo che dobbiamo vedere con chiarezza, che rende onore alla lungimiranza di Paolo VI, il quale sapeva bene di andare contro corrente, anche in ambito cattolico, ma rivendicò, pubblicamente e in più occasioni private, il suo diritto-dovere di indicare le grandi linee di un’antropologia, e di una moralità, che non sviliscano la persona, non la riducano a oggetto di sfruttamento e di svilimento. Allora, noi dobbiamo vedere questa enciclica da un’altra angolazione, quella della deriva relativista che s’è sviluppata in Occidente fino a giungere oggi a scelte e pratiche che ci sono note, e interpellano drammaticamente la nostra coscienza e la coscienza dei giovani.
Guardiamo a quanto accade da tempo sotto i nostri occhi, dopo l’abbandono di principi e valori etici elementari che sono universalmente conosciuti. Guardiamo a quella separazione tra sessualità e procreazione che oggi è giunta al punto tale da rendere sconosciuta l’una all’altra; allo svilimento della figura femminile piegata a nuove forme di sfruttamento addirittura corporeo, alla realtà di minori cui è sottratta la conoscenza dei genitori, che devono patire addirittura l’amputazione di uno dei genitori, e vivere in una realtà relazionale monosessuale.
Chiediamoci, alla luce della ragione naturale, se le distorsioni cui assistiamo non costituiscano proprio ciò contro cui Paolo VI ci ha messo in allarme, chiedendoci di combatterlo strenuamente. Guardiamo al suo magistero con la libertà di coscienza già richiamata, con quella laicità che evoco spesso, e con quello spirito di verità che deve ispirare il nostro ragionare. Ci possiamo chiedere se in un testo così contestato e criticato[66], non siano contenute le più profonde verità sull’uomo, quelle che difendono la dignità della persona, della donna in modo particolare, che esaltano i principi e la bellezza della procreazione, del fluire delle nuove generazioni cui proprio i giovani guardano con gioia e speranza.
Sul merito di queste tematiche, alcune delle quali sono dolorosissime, intendo svolgere qualche considerazione. La sfida che l’umanità deve affrontare oggi è sottile, complessa, coinvolge quell’intreccio tra antropologia, scienza e religione, che determina scelte essenziali della vita umana, sulla famiglia, la procreazione, le fasi iniziali e terminali dell’esistenza. Il conflitto tra concezioni antropologiche determina quasi una frattura coscienziale che interroga la persona nelle sue più intime convinzioni: riguarda l’istituto del matrimonio, esteso a ogni tipo di convivenza, come una porta girevole nella quale tutti entrano ed escono quando vogliono, fino alla previsione dell’adozione per le coppie non eterosessuali, nonché la procreazione realizzata fuori dell’alveo naturale, in diverse varianti.
La cultura relativista imbocca una strada di non ritorno. Essa pone al centro dei diritti umani la sovranità dell’Io, afferma che il politeismo etico non è che l’altra faccia del politeismo religioso già realizzato dall’illuminismo. Si va così oltre il liberalismo, e le sue basi etiche, e si teorizza la ‘non-verità dell’etica’: “nell’etica non c’è verità. I valori di vero e di falso convengono alle proposizioni del discorso descrittivo-esplicativo”. Due mondi opposti, due universi che non possono incontrarsi, con conseguenze che conosciamo. Considerare il figlio come oggetto del desiderio che si può avere, comprare, selezionare, vuol dire renderlo variabile indipendente di rapporti disumanizzati, per i quali si contratta nei mercati della maternità surrogata, nei laboratori scientifici privi di controllo che si attrezzano in alcune parti del mondo.
Una volta che si annulla il confine tra etica e diritto, o per meglio dire, che non si discute più sul rapporto tra giustizia e diritto (se non in termini limitati a livello economicistico) ma si inibisce perfino di concepire una qualche liaison tra leggi e fondamento etico, è già scritta la discesa verso il diritto procedurale (senza nemmeno la parvenza di garanzia data dalla Grund Norm), verso una neutralità della legge che deve ad un certo punto persino giustificare la propria neutralità di fronte ai consociati. John Rawls formula la più compiuta teoria del liberalismo politico come fonte di una giustizia procedurale che garantisca lo scambio di beni e valori tra persone che sono eguali nella sfera pubblica. Lo Stato non deve far nulla per spingere i cittadini ad accettare una particolare concezione (del bene) piuttosto che un’altra, salvo prendere misure per annullare o compensare gli effetti di politiche che eccedano in un senso o nell’altro[67]. Con Charles Larmore la posizione si radicalizza definitivamente quando nega la possibilità stessa di un’ideale della vita buona di Aristotele, perché una “vita piena può essere vissuta in una molteplicità di modi diversi, e tra questi non esiste alcune gerarchia distinguibile”[68].
Nasce un nuovo tipo di liberalismo, perché: “lo Stato (deve) rimanere neutrale”; esso “non dovrebbe cercare di promuovere alcuna concezione particolare della vita buona per via della sua presunta superiorità intrinseca, vale a dire, perché si suppone che questa sia una concezione più vera”. Ne deriva un proceduralismo estremo, privo d’ispirazione etica: “se i liberali rispettano alla lettera lo spirito del liberalismo, devono anche escogitare una giustificazione neutrale della neutralità politica”; devono cioè “escogitare dei principi politici che siano essi stessi neutrali, la giustificazione dei quali, cioè, non richieda l’appello alla concezione del bene in discussione”[69]. Cedendo a una involontaria ironia, Larmore ritiene che per lo Stato “alcune concezioni di vita buona saranno più apprezzate di altre”; e questa “è una verità universalmente riconosciuta e, credo, un fatto inevitabile. Quanto meno, chi desidera fare una vita da ladro, non avrà vita facile”[70].
In questo orizzonte si compie il cammino che ci allontana da una visione forte dei diritti, provoca la loro dissoluzione attraverso diverse tappe, alcune proposte con levità da intellettuali di varia estrazione. Conviene richiamarne una che, con la fine della vita buona, prefigura la distruzione della famiglia e il trionfo di un edonismo prossimo al libertinismo d’altre epoche. È quella di Jaques Attali, per il quale la famiglia monogamica “è solo un’utile convenzione sociale”. Secondo l’economista francese, andiamo “verso una concezione radicalmente nuova di relazione sentimentale e amorosa. Nulla ci impedisce di innamorarci di più di una persona contemporaneamente. Il fatto di avere più partner e vite multiformi renderà palese l’ipocrisia della società. Ciò non avverrà senza conflitti. Tutte le Chiese cercheranno di impedire una cosa del genere, soprattutto alle donne. Per un po’ resisteranno, ma alla fine trionferà la libertà individuale”. Il pensiero di Attali è come il trait d’union tra l’esaltazione teorica della libertà di fare ciò che si vuole e la sua traduzione pratica, che porta al deserto dei valori e dei diritti umani. Dentro ci sono cose che conosciamo ormai per esperienza diretta: i diritti si moltiplicano, i fondamentali non si distinguono più dai secondari, i doveri si dissolvono e si spezza il rapporto con l’umanesimo occidentale, da Aristotele a San Tommaso, da Montesquieu a Maritain, al diritto si sostituisce il desiderio, poi la “pretesa”, fino a sfociare nella guerra tra diritti a tutto danno dei soggetti che ancora non sanno e non possono difendersi.
L’ultimo passaggio segna il movimento dalla teoria alla pratica, investe una serie amplissima di eventi e situazioni, nonché il complesso delle relazioni sociali. Si adattano con disinvoltura svolte storiche decisive all’odierno nichilismo, e si subisce un’ulteriore relativizzazione interna ai nostri territori, che falcidia i valori più alti costruiti dall’umanesimo, il rispetto degli altri, la solidarietà, la difesa dei più deboli[71], a cominciare da chi nasce e non può difendersi dal dominio degli adulti e delle loro pretese. Si legittima così l’eterologa, senza mai chiedersi se per il donatore non viga più alcun principio di responsabilità, se il figlio non abbia il diritto di conoscere il genitore naturale, che invece rimane nascosto per il resto dei giorni. Si ammette la filiazione per due persone che abbiano lo stesso sesso, senza chiedersi se il figlio non abbia il diritto naturale di avere un padre e una madre per ragioni morali, fisiche, psicologiche, sociali, conosciute da tutti. Si accetta perfino il ricorso alla maternità surrogata per dare dei figli a chi non può averne, anche se dello stesso sesso, perché se nell’etica non c’è verità si può cancellare il cammino moderno di emancipazione della donna: si può sfruttare il suo corpo, farne commercio secondo convenienza, e strumento per soddisfare desideri altrui, sottrarle il figlio che partorisce e nascondere lei al figlio nato. Qui sovviene una considerazione di Paolo VI che ci tocca da vicino, per la sua lungimiranza e gravità, perché il Papa, parlando con Jean Guitton, afferma che l’etica non può cambiare ogni volta che c’è una scoperta scientifica, assoggettandosi ad essa acriticamente: “per esempio”, afferma il Papa, “un domani si ammetterebbe la procreazione senza paternità; tutto l’edificio della morale verrebbe dissolto”[72]. È esattamente quello che è avvenuto, e che ho già descritto, superando barriere inimmaginabili ai tempi di Paolo VI, relative alla maternità, alla filiazione sconosciuta e commercializzata, alla distruzione di ogni relazione affettiva a base dell’istituto matrimoniale[73].
Riassumiamo ciò che vediamo accadere sotto i nostri occhi. Oggi si diffondono pratiche sconosciute all’esperienza umana con nuove forme di umiliazione della persona, della donna in particolare, come ha denunciato con coraggio la filosofa femminista Sylviane Agacinski nel suo impegno contro la maternità surrogata, con la quale si giunge a vendere il corpo della donna e consegnare un figlio che ha gestito ad altri. Esistono agenzie specializzate per comprare il figlio da donne povere e consegnarlo a coppie ricche, magari non eterosessuali. Si priva, così, un bambino di sua madre, si fa in modo che egli non senta mai il calore del corpo della mamma, o non senta mai il calore del corpo del padre. Siamo di fronte a prospettive terribili, che cancellano la figura della mamma, sacra in ogni lingua e cultura, dall’orizzonte corporeo e affettivo di suo figlio. Contro quest’orizzonte oscuro Paolo VI si è proposto e affermato come il profeta della vita, che tutela i diritti primordiali di chi nasce su questa terra. Aggiungo una considerazione personale. Possiamo coltivare un sogno, fare in modo che tutti, cristiani, ebrei, buddisti, musulmani, s’impegnino per evitare questo nichilismo, e consentire ad ognuno d’avere i genitori naturali che lo curino e crescano con amore? Penso che un impegno universale che abbia questo grande obiettivo, forse darebbe all’ecumenismo, al dialogo tra le religioni, basi più forti delle pur importanti discussioni dottrinali. Non è la dottrina che accosta l’uomo a Dio, o lo allontana, è il rispetto dei valori del Vangelo a spingere l’ecumenismo e il dialogo avanti, a cominciare dalla difesa di quella genitorialità che sola dà senso alla filiazione e al primo germoglio d’amore che i più piccoli sperimentano dalla nascita.
Se guardiamo con questi occhi a quello che viene definito il conservatorismo di Paolo VI finiremo per scorgerci in realtà una profonda lungimiranza che egli stesso esprime ponendosi le domande cruciali su Dio e la fede[74]. E Paolo VI affronta anche gli interrogativi più difficili formulati da ideologie antireligiose, come quando il 28 agosto 1968 si chiede: “può davvero e onestamente l’uomo moderno nutrire la convinzione che Dio rappresenti per noi una “alienazione”?; che solo senza Dio sia possibile quella pienezza di libertà e di responsabilità che consentirebbe di intraprendere con successo la “costruzione” del mondo e della storia?”.[75] Anche in questo caso il Papa cerca quel pizzico di verità contenuta in ogni domanda. E risponde che, “proprio per la mancanza e il rifiuto di Dio – fondamento dell’essere, della verità, della moralità, di tutti i valori – l’uomo si “altera” nel suo stesso equilibrio essenziale, per precipitare nella disumanità dell’egoismo, della tecnocrazie, dell’oppressione, o per finire con l’imprigionarsi in una contestazione totale e assurda”[76]. Conclude, con la consueta sottigliezza intellettuale: non si può negare che “talvolta non già Dio ma il concetto che l’uomo se ne forma, possa condurre a una comoda evasione, mentre l’Essere Supremo è la fonte di ogni massimo impegno; che tale concetto possa e debba purificarsi, così da risultate meno inadeguato all’indicibile Realtà che validamente esprime”[77]. La conclusione investe la capacità dell’uomo di dare risposta a tutto ciò che la coscienza chiede anche in modo sofferto, ma senza che possa scivolare, e perdersi, “nel soggettivismo, nel relativismo, nello storicismo, nello scetticismo”[78]

PAOLO VI, UOMO DELLA FEDE E DELLA SAPIENZA.

Paolo VI è probabilmente il Papa che nella modernità ha dato più risposte agli interrogativi dell’uomo, e più ha tradotto in realtà la sua visione strategica della riforma della Chiesa[79]. E forse è il Papa che più ha unito pensiero e azione nel dare alla Chiesa un volto nuovo, capace di accogliere l’uomo moderno con le sue esigenze, ma anche riconoscendo il fondamento, il valore, dei suoi dubbi, delle sue incertezze, per farne veicolo di spiritualità, di fede[80]. Ho parlato tanto nella mia Relazione dell’azione riformatrice di Paolo VI che non ha trascurato alcuna dimensione della modernità. Possiamo ricordare l’apertura a tutti gli uomini e a ogni religione, l’accettazione piena dei diritti fondamentali come orizzonte dell’azione della Chiesa, il riconoscimento della centralità dell’ONU nel consesso delle Nazioni fino ad affiancare la Chiesa alla sua azione in difesa della pace, l’inserimento di tutti i popoli, ed etnie, nel processo di emancipazione che fino ad oggi ha riguardato soltanto una parte dell’umanità.
Eppure, se dovessi cogliere il profilo che fa emergere la saggezza più grande che ha segnato il magistero di papa Montini, credo che stia nella concezione antropologica che ha elaborato per dare risposte alle domande che da sempre si affacciano nel cuore degli uomini, e sulle quali s’è interrogata ogni scuola di pensiero. Paolo VI non si presenta alla coscienza dei moderni con la sicurezza di chi già possiede la verità, e nega la complessità delle domande della coscienza; oserei dire che egli guarda all’uomo come a quel caleidoscopio esistenziale che la filosofia contemporanea ha individuato da tempo. Nel 1969, quasi riassumendo, questo pensiero, egli afferma: “è nella mentalità dell’uomo moderno, di tutti noi, possiamo dire, la persuasione che “tutto cambia”. L’osservazione della vita contemporanea ci dà l’impressione che ogni cosa è in via di trasformazione, è in movimento; tutto muta, tutto si evolve, tutto decade e tutto si rinnova. Siamo presi e compresi di questo senso d’instabilità delle cose”[81].
Di qui, la domanda conclusiva che può annientare la coscienza religiosa: “la religione non sarebbe anch’essa soggetta a qualche importante cambiamento? E, di fatto, per contenere il discorso nel campo che ci riguarda, la nostra religione non è anch’essa in vita di mutazione?”. La risposta di Paolo VI sconcerta un po’ perché dice: “noi vi rivolgiamo una prima preghiera: fate attenzione! Attenzione alla complessità della questione”[82]. Papa Montini si conferma come il Pontefice che non dà risposte facili. Egli considera in primo luogo “il profilo soggettivo; cioè quello proprio dell’uomo, quello mentale, psicologico, filosofico. E noi tutti sappiamo a quali mutazioni, a quali arbitrii, a quali storture, a quali dubbi, a quali negazioni, insomma a quali metamorfosi l’idea religiosa è stata ed è, in questi ultimi tempi, sottoposta. La discussione ne rimane sempre aperta”[83]. Ribadisce ancora che non esistono soluzioni facili: “l’uomo, questo essere dalle cento facce, può configurarsi in aspetti e in atteggiamenti diversissimi, proteiformi, rispetto alla religione, ma resta uomo, un essere cioè sostanzialmente qual è, non solo capace ma bisognoso di Dio; anzi, quanto più uomo egli è e diviene, tanto maggiore si pronuncia in lui la religione”. La complessità delle situazioni della modernità è motivo ricorrente nelle analisi di Paolo VI, fino a rasentare insuperabili critiche a certo sociologismo mediatico[84].
Per questo singolare motivo, Paolo VI è espressione eminente di una laicità di cui oggi si sente tanto bisogno. La laicità non esclude l’amore per la Chiesa, ma l’amore per la Chiesa presuppone una laicità critica, che fa cadere tante cose vecchie già segnalate: esclusivismo, temporalismo, ostilità verso la modernità, condanne per quanti hanno opinioni diverse. Nascono invece cose nuove per realizzare una società vicina all’uomo: dialogo con i non credenti, tra le religioni, ecumenismo, attenzione alla complessità antropologica della persona. Questa rivoluzione, che apre la Chiesa alla globalizzazione, è possibile perché sorretta da fede profonda e dalla fiducia nella ragione che non contraddice la fede. Anche per questo Paolo VI poneva tra gli obiettivi della sua opera quello di “snellire la Chiesa del suo provvisorio per darle il suo volto autentico”[85].
Concludo la mia relazione così come l’ho iniziata, con la lettera che Giovanni Battista diciassettenne scrive al suo compagno di scuola, e mi rivolgo soprattutto ai giovani, ai nostri studenti. Guardate sempre in alto, ragazzi, coltivate i vostri sogni, le vostre ambizioni, i talenti evangelici che avete dalla nascita. Fatelo con fiducia, con la ragione e l’intelligenza, attingendo il più possibile agli ideali che certamente avete nel cuore. La passione e l’entusiasmo non sono confinati alla giovinezza, però mentre per chi sta avanti con l’età essi sono un dono, per i giovani sono le cose più belle e naturali che già avete; vedrete che la vita, pur con le sue sofferenze, vi darà molto più di quanto possiate immaginare, Questo, forse, è il lascito più grande che ci viene dalla straordinaria figura di Paolo VI, e da tutto ciò che ha fatto per la Chiesa e per il nostro Paese.