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2017.12 Sui sentieri del mistero

SUI SENTIERI DEL MISTERO

Le originarie esperienze umane rivelatrici del senso religioso

Questo Quaderno contiene una serie di riflessioni, nate nei miei anni di insegnamento in seminario e riproposte nei diversi Corsi di formazione e di aggiornamento agli insegnanti di religione cattolica presso il Centro Pastorale Diocesano e presso alcuni plessi scolastici della diocesi Si tratta di una proposta che affronta il percorso umano fondamentale, ossia il percorso che caratterizza l’uomo in quanto tale. L’uomo è un cercatore di senso. E affinché questa ricerca – giustamente definita “religiosa”, in quanto colloca l’uomo su sentieri che provengono da lontano e vanno lontano – non appaia un’utopia irrealizzabile, un sogno a buon mercato, una fiaba illusoria e quindi foriera di delusioni – come vorrebbe l’atteggiamento ideologicamente scettico di buona parte della cultura occidentale contemporanea – tale ricerca è qui declinata sul sentiero dell’esperienza umana universale. Ogni uomo cammina sui sentieri del mistero, che assumono le forme più disparate dentro al nostro vivere quotidiano. Si tratta di “cercare la verità” di se stessi, del mondo, dell’intera realtà che ci circonda: la realtà è ricca di segnali, di indicazioni, di stimoli che ci portano sul sentiero di Dio, un sentiero che il mondo contemporaneo vorrebbe censurare in nome di una sempre più conclamata laicità. Papa Benedetto XVI in particolare, ma tanti Papi della nostra epoca, da tempo denunciano l’emarginazione di Dio dal cuore dell’uomo e dalla vita pubblica: e questa denuncia anzitutto, prima che in nome di Dio, viene fatta in nome dell’uomo, che ha il diritto e il dovere di cercare la verità, perché l’uomo è stato creato “capace di verità”. Di recente anche Papa Francesco, parlando alla Commissione dei Vescovi dell’Europa lo scorso 28 ottobre, denunciava “un certo pregiudizio laicista”, incapace di “percepire il valore positivo per la società del ruolo pubblico e oggettivo della religione, preferendo relegarla ad una sfera meramente privata e sentimentale”. Solo l’incontro e l’accoglienza della verità rendono l’uomo davvero libero e felice. Ogni altro atteggiamento, che mortificasse la ricerca dell’uomo, ne impedisse l’esito o ne vietasse il cammino negli spazi pubblici del vivere sociale e civile, questo, anziché essere manifestazione di laicità, è imposizione del suo contrario, ossia del fondamentalismo laicista e agnostico, che sta invadendo e seducendo – come un nuovo vento “liberatorio” e neoilluministico– i pulpiti mediatici, le cattedre culturali e gli areopaghi legislativi del nostro Occidente. Il relativismo e lo scetticismo – che predicano l’inesistenza della verità o l’incapacità, se non addirittura l’inutilità o la dannosità di cercare il vero da parte dell’uomo – finiscono con il negare la dignità stessa della persona umana, perché la impoveriscono, appiattendola al livello del mondo creato e togliendole quello che ha di più prezioso, ossia la ricerca di ciò che è trascendente.

Cremona, 26 novembre 2017

Solennità di Cristo re dell’universo

Dedico queste riflessioni ai parrocchiani della Cattedrale, di S. Imerio e di S. Pietro: perché si sentano incoraggiati ad approfondire, irrobustire e a convalidare questi pensieri, che si presentano con il tono minore di semplici tracce, di umili schizzi di un percorso che va portato a compimento con il dialogo reciproco e con un’attenzione diversa – meno banale e più coraggiosamente attenta alla propria esperienza di vita – ai moti del proprio cuore e alle istanze, per fortuna incancellabili, della propria intelligenza.

Don Alberto Franzini

  1. Esperienza del senso

L’uomo, diversamente dall’animale e dalla pianta, non solo vive, ma si pone la domanda sul perché della vita, ossia sul suo senso ultimo. Uno dei brani letterari più significativi è là dove il “pastore errante dell’Asia” di Giacomo Leopardi ripropone alla luna le domande fondamentali che attraggono e anche angosciano ogni uomo:

Spesso quando io ti miro

Star così muta in sul deserto piano,

Che, in un suo giro lontano, al ciel confina;

Ovver con la mia greggia

Seguirmi viaggiando a mano a mano;

E quando miro in cielo arder le stelle;

Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l’aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? Che vuol dir

Questa solitudine immensa? Ed io che sono?

 

Analogamente il poeta Giuseppe Ungaretti in sua celebre poesia, dal significativo titolo “Dannazione”, così si esprime:

 

Chiuso fra cose mortali

(Anche il cielo stellato finirà)

Perché bramo Dio?

Qui Ungaretti esprime l’universale insofferenza umana del limite, rappresentato dalla strettoia della finitezza, della caducità e della morte, che colpisce tutti e tutto, perfino il cielo stellato, ossia la grandiosità dell’universo. E da questa insopportabile e dannata insofferenza, esce il grido umanissimo: perché bramo Dio? Ecco il mistero della vita umana: la coscienza della propria tragica finitezza, che cozza contro il desiderio di pienezza, di felicità e di immortalità (ossia di quel che convenzionalmente il linguaggio umano chiama “Dio”: ossia il tutt’altro dall’uomo, seppure il suo compimento) che l’uomo si porta dentro da sempre e per sempre.
Anche il Concilio Vaticano II, in un testo classico della costituzione pastorale Gaudium et spes, quando analizza la condizione dell’uomo nel mondo di oggi, annota:
“Di fronte all’evoluzione attuale del mondo, diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi capitali: cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte che malgrado ogni progresso continuano a sussistere? Cosa valgono queste conquiste a così caro prezzo raggiunte? Che reca l’uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?” (n. 10).
Queste domande si trovano al fondo del nostro essere: sono inestirpabili, perché costituiscono come la stoffa di cui è fatto l’uomo. Sono le domande che fanno dell’uomo un “fenomeno religioso”, ossia un essere gettato nell’esistenza senza che lo abbia scelto, un essere “costretto” a navigare nel mare dell’esistenza alla ricerca di un porto sospirato, attento a cogliere – attraverso la bussola della sua coscienza, della sua intelligenza e della sua libertà – gli orientamenti di fondo che gli venissero proposti, i segnali di un percorso che gli venissero donati. L’animale, la pianta, il minerale non si pongono tali domande: vivono, ma non hanno la coscienza di vivere, non hanno nemmeno la coscienza di morire, e quindi non hanno neppure la coscienza di un senso, di un cammino da percorrere, né tanto meno di un traguardo da raggiungere. Non è un caso che solo l’uomo progredisca: nel pensiero, nel linguaggio, nella scienza, nelle arti, nella tecnica…; che solo l’uomo sia l’unico essere capace di togliersi la vita (nessun cane e nessun gatto decide di farla finita sotto il treno…); che solo l’uomo avverta il proprio limite e si ribelli: e perché mai si ribella al limite, se non per il motivo che porta in sé, costitutivamente, il senso del non-limite?; che solo l’uomo sappia distinguere il bene dal male, e quindi sia dotato di una coscienza morale; che solo l’uomo abbia la coscienza di andare incontro alla morte; che solo l’uomo si inginocchi, riconoscendo in un Altro diverso e distinto da sé la radice e la causa del proprio esserci e del proprio esistere.
San Paolo, nel discorso davanti all’Areopago, quando discorre con gli ateniesi della ricerca di una risposta alle domande ultime che stanno al fondo del nostro essere, le identifica proprio con quell’energia fondamentale che tutto signoreggia e che spinge gli uomini e i popoli alla ricerca di Dio, nel quale noi “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: Poiché di lui stirpe noi siamo” (Atti 17, 28). Qualunque moto dell’uomo ha questa sorgente e dipende da quell’ultima, originale, enigmatica fonte che non ha ancora un volto definito, ma che è considerata reale, perché senza di essa la realtà non ha fondamento, né consistenza.
Dunque ogni uomo viene ad imbattersi nella domanda di fondo: chi sono io? Chi è l’uomo? Che senso ha tutta la realtà nella quale mi trovo? E’ una domanda che sorge nel tempo della adolescenza e della giovinezza in modo violento, anche se sembra oggi essere soffocata da tante esperienze e alienata da tante pseudorisposte. La domanda non scompare con l’età adulta e diventa acuta con l’approssimarsi della vecchiaia e della morte. Questa domanda si propone continuamente e sotto forme anche molto diverse per tutta la vita: la si può rimandare, occultare, annullare, ma essa riemerge sempre, perché è la domanda che qualifica l’essere umano, anzi che coincide con l’essere umano.
Nell’enciclica Fides et ratio, del 1998, Giovanni Paolo II afferma:
“Esiste un cammino che l’uomo può percorrere: esso prende il via dalla capacità della ragione di innalzarsi al di sopra del contingente per spaziare verso l’infinito. In differenti modi e in diversi tempi l’uomo ha dimostrato di saper dare voce a questo suo intimo desiderio. La letteratura, la musica, la pittura, la scultura, l’architettura ed ogni altro prodotto della sua intelligenza creatrice sono diventati canali attraverso cui esprimere l’ansia della sua ricerca. La filosofia in modo peculiare ha raccolto in sé questo movimento ed ha espresso con i suoi mezzi e secondo le modalità scientifiche sue proprie, questo universale desiderio dell’uomo” (n. 24).
L’uomo infatti non ha la facoltà di porsi e di non porsi questa questione, poiché egli è uomo proprio per il motivo che è egli stesso una grande questione, come già affermava s. Agostino: “Factus sum mihimetipsi quaestio magna, ossia sono diventato a me stesso una grande questione, una questione irrisolta con le mie sole forze umane, ma una questione che porta in sé la radicale esigenza di risposta. Se dunque l’uomo non è originariamente colui che pone tale questione, ma piuttosto essa gli viene posta – nel senso che si impone da sé – sorge allora necessariamente la domanda: da dove viene tale questione? Possiamo per il momento rispondere che tale questione viene posta all’uomo da quel mistero assolutamente impenetrabile dal quale egli stesso proviene. La questione proviene dall’origine stessa, ossia da quel mistero da cui è originato l’uomo stesso.
Qui per mistero intendiamo non semplicemente ciò che non è ancora conoscibile con gli attuali strumenti conoscitivi, ma che si renderà palese non appena si allargheranno gli orizzonti del nostro conoscere; bensì intendiamo ciò che per natura sfugge alla nostra conoscenza tematica e sperimentale e che proprio per questo ne costituisce il fondamento.
Qui ci soccorre un brano di un teologo del Novecento, Karl Rahner:
“Ogni vita sta sotto il segno di una realtà inevitabile: il mistero. Il mistero non è il residuo non ancora esplorato, non ancora attuato e realizzato, ma è di tutto questo la premessa e il fondamento portante. Infatti proprio lo sguardo lanciato al di là di ogni pensabile o realizzabile concreto, proprio l’impossibilità di fondo di limitare ogni movimento della conoscenza e della libertà tramite un dato singolo determinato, un punto di arrivo definitivo, è condizione della possibilità e della peculiarità della realizzazione umana della vita. Noi siamo, pensiamo e operiamo in libertà solo se abbiamo sorpassato il già determinato e il già compreso in un movimento che non ha alcun limite. Se ci consideriamo come uomini sottoposti a limiti (come appunto siamo in svariatissimi modi), abbiamo già superato i limiti; certo con una specie di passo nel vuoto, ma si tratta pur sempre di un superamento e, inoltre, esperiamo noi stessi come soggetti dell’ininterrotto andare oltre noi stessi, verso una realtà non abbracciabile che appunto perché tale dobbiamo definire infinita e coincidente con il mistero puro e semplice; il mistero infatti, come condizione di tutta l’attività di capire, distinguere e coordinare, non può più venir esperito nella stessa modalità di cui il mistero stesso è condizione” (Esperienza di Dio oggi, in Nuovi Saggi IV, Roma 1973, pp. 213-4).

Le modalità, infine, con cui sorge la questione del senso ultimo possono rivestire le forme più diverse, a seconda delle situazioni: in una situazione di gioia, quando la nostra esistenza e il mondo intero ci appaiono ricchi e piacevoli; o, al contrario, in una situazione di dolore e di angoscia, quando ci imbattiamo nello smacco o nel fallimento dei nostri progetti; nei momenti in cui ci sentiamo accolti e amati dagli altri; in una situazione di noia terribile, quando tutto ci appare vuoto e senza senso; oppure quando incontriamo il mistero del fallimento e della morte. Si tratta di esperienze che l’uomo non può completamente manipolare a suo piacimento, ma che gli vengono offerte dal mistero stesso dell’esistenza e che in qualche modo rendono manifesto questo stesso mistero, ne sono per così dire le finestre che ce lo fanno intravedere.
L’uomo comunque è spinto a cercare la risposta a tali questioni, come già suggerisce l’esperienza di S. Agostino: “Signore, ci hai fatti per Te, e il nostro cuore è inquieto finchè non riposa in Te”. Solo la realtà di Dio, solo l’affermazione del mistero come realtà esistente oltre la nostra capacità conoscitiva corrisponde alla struttura originaria dell’uomo: perché l’uomo è quel livello della natura in cui esso si chiede “perché ci sono”.

Diventa necessaria una precisazione, anche di carattere metodologico. Il discorso sul mistero diventa particolarmente difficoltoso soprattutto a causa della cultura antimetafisica oggi imperante, che, riconoscendo come reale soltanto ciò che è concreto, finisce con il ridurre la realtà a ciò che è sperimentalmente verificabile. Il reale invece non va confuso e ridotto solo a ciò che è concreto. Non sono le scienze sperimentali a dare la risposta adeguata al mistero della persona umana, anche se sono indispensabili per comprenderne il funzionamento periferico; bensì sono le scienze umane a suscitare e a orientare le domande più profonde e più vere, ossia la letteratura, l’arte, la poesia, la filosofia, la religione. Le scienze sperimentali studiano ciò che è concreto, ossia ciò che empiricamente verificabile, ma sono inadeguate a conoscere tutto ciò che è reale. La dimensione del reale è infinita, mentre la dimensione del concreto è limitata. Un esempio per tutti. Le scienze sperimentali mi diranno come è composta chimicamente una lacrima: di acqua, di sali minerali e di quant’altro; ma non mi diranno mai se quella lacrima è di gioia o di dolore. E così è la persona umana: le scienze sperimentali mi diranno come è composta la persona umana; ma non mi diranno mai qual è il senso, la qualità, il fine, il mistero della persona umana. L’affermazione di ciò che è trascendente, ossia di ciò che “trascende la fisica” (metafisica) non può essere posta dalla scienza, come del resto la sua negazione. Perché la scienza possa legittimamente porre simili affermazioni, si dovrebbe arrivare a sostenere che la scienza ha come oggetto l’essere nella sua totalità. In questo caso la scienza, diventando scientismo (oggi molto diffuso nella nostra cultura) si arrogherebbe il posto e il compito della filosofia e della religione. Un grande teologo del Novecento, H. De Lubac, ha scritto molto opportunamente:
“Se affidassimo alla scienza il compito di affermare o di negare Dio, si cadrebbe prigionieri dell’illusione che fa della conoscenza scientifica il solo tipo di conoscenza valida, dimenticando il soggetto conoscente. Ecco perché la prova di Dio deve spesso oggi iniziare da un processo preliminare che consiste nel situare, definire, caratterizzare, fondare e quindi criticare l’attività scientifica, al fine di sapere ciò che si è in diritto di attendere da essa e ciò che essa è in grado di apportare o rigettare”. Se poi la conoscenza di tipo scientifico viene considerata come l’unica forma valida di conoscenza, se, in altri termini, si facesse strada la convinzione che nell’universo “non si trovano che degli ‘oggetti’, interamente conoscibili e decomponibili mediante l’analisi, e mai dei ‘soggetti’ – mai degli esseri – l’attitudine dell’uomo di fronte a questo universo non può essere in alcun modo né di contemplazione, né di preghiera, né di fede” (H. De Lubac, Athéisme et sens de l’homme, Paris 1968, pp. 49-50).
Se dunque l’uomo fosse il soggetto di una tale scienza che non potesse concepire che degli oggetti, allora non solo Dio, ma anche l’uomo non esisterebbe più come uomo. La cultura scientista sottende un’antropologia immanentista e depauperata. Assolutizzando la dimensione tecnico-demiurgica dell’uomo, arriva di fatto a mutilare l’uomo stesso, a renderlo impermeabile rispetto alle altre dimensioni che non siano accessibili ad una griglia tecnico-scientifica. Emarginando la metafisica, si emarginano anche tutti gli altri aspetti non oggettivabili e non verificabili sul piano scientifico e si finisce per avvallare una concezione errata o parziale della “ragione” umana: una ragione ridotta a pura funzione calcolatrice. Un uomo che diventasse incapace di ascolto, di meraviglia, di accoglienza, di presa di coscienza di fronte al grande mistero della realtà e dell’esistenza, un uomo che si mettesse nell’impossibilità di stupirsi, di gioire, – perché in forza di questa ipervalutazione della “ragione scientifica” ha confinato nel regno dell’immaturità o della alienazione mitologica o della nevrosi psicologica tutta la dimensione simbolica e spirituale della sua esistenza – non soltanto sarà un uomo “non-religioso”, ma si ridurrà ad essere “meno-uomo”.
Da qui l’importanza della filosofia, intesa nella sua dimensione metafisica, ribadita con vigore da Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio

La questione del senso sembra oggi acutizzarsi in concomitanza con l’aumento vertiginoso delle conoscenze scientifiche e delle soluzioni tecniche. L’ampliarsi progressivo delle specializzazioni non soltanto mette in luce la complessità del fenomeno umano, ma ripropone l’urgenza di superare gli aspetti settoriali dell’esistenza umana (biologia, fisiologia, psicologia, politica, economia, sociologia…), per arrivare a quella visione d’insieme che rifletta e dia la ragione dell’essere profondo dell’uomo.
Da qui l’importanza della filosofia, intesa nella sua dimensione metafisica, ribadita con vigore da Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio, in cui il Papa denuncia “con meraviglia e dispiacere” la disaffezione di tanta parte della cultura contemporanea nei confronti della filosofia:
“Da più parti si è sentito parlare di ‘fine della metafisica’: si vuole che la filosofia si accontenti di compiti più modesti quali la sola interpretazione del fattuale o la sola indagine su campi determinati del sapere umano o sulle sue strutture” (n. 55). Da qui l’invito: “non posso non incoraggiare i filosofi, cristiani o meno, ad avere fiducia nelle capacità della ragione umana e a non prefiggersi mete troppo modeste nel loro filosofare. (…) Bisogna non perdere la passione per la verità ultima e l’ansia per la ricerca, unite all’audacia di scoprire nuovi percorsi” (n. 56).

Si impone una prima conclusione. L’uomo è tale perché si pone la domanda sulla “verità ultima”. L’uomo non può non porsi la questione del senso. Può eludere la risposta, non certo la domanda. E tale domanda non interpella solo l’intelligenza, ma anche la libertà, la volontà, ossia il cammino concretissimo della vita di tutti i giorni. Se l’uomo è colui che si pone per essenza tale domanda, vuol dire che la sua esistenza non possiede tutti gli elementi per costruire la risposta. La domanda sul senso ultimo della vita dice che l’esistenza umana è essenzialmente riferita al mistero che ne è all’origine e dunque ne costituisce anche il fine.
Porre la questione del senso è porre la questione della verità, una questione sempre più rimossa dalla cultura contemporanea, che preferisce rimanere legata alle sabbie mobili dell’opinione, perché ritiene divisiva la verità. In realtà
“la questione della verità non può certo essere evitata: deve anzi occupare uno spazio centrale. Ponendo la domanda intorno alla verità allarghiamo infatti l’orizzonte della nostra razionalità, iniziamo a liberare la ragione da quei limiti troppo angusti entro i quali essa viene confinata quando si considera razionale soltanto ciò che può essere oggetto di esperimento e di calcolo. E proprio qui avviene l’incontro della ragione con la fede: nella fede accogliamo infatti il dono che Dio fa di se stesso rivelandosi a noi, creature fatte a sua immagine; accogliamo e accettiamo quella Verità che la nostra mente non può comprendere fino in fondo e non può possedere, ma che proprio per questo dilata l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al Mistero in cui siamo immersi e di ritrovare in Dio il senso definitivo della nostra esistenza” (Benedetto XVI, Ai partecipanti ak Convegno ecclesiale della diocesi di Roma, 5 giugno 2006).

Se dunque le domande ultime sono la stoffa, il costitutivo della persona umana, come fanno a destarsi? Cercheremo ora di individuare la struttura della reazione che l’uomo ha di fronte alla realtà, per individuarne le dinamiche fondamentali.

2. Lo stupore della realtà

Se uscissimo dal seno materno con l’età che abbiamo ora da adulti, la prima dinamica che si accende di fronte alla realtà sarebbe di stupore e di meraviglia. Saremmo stupiti di fronte alle “cose” che vediamo, ossia di fronte all’”essere”. Il primo sentimento dell’uomo è quello di essere di fronte ad una realtà che non è sua, che non ha fabbricato lui, che esiste indipendentemente da lui e da cui lui in qualche nodo dipende. Già San Paolo, nella lettera ai Romani, afferma che chi non crede in Dio è inescusabile, perché deve rinnegare questa originale esperienza dell’Altro: “Ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti dalla creazione del mondo in poi le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; essi dunque sono inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa” (1, 19-21). L’ebreo A.J. Heschel scrive a proposito: “L’assoluto stupore è per l’intelligenza della realtà di Dio ciò che la chiarezza e la distinzione sono per la comprensione delle idee matematiche. Privi di meraviglia, restiamo sordi al sublime” (Dio alla ricerca dell’uomo, Torino 1969, pp. 273-4). Giovanni Paolo II scrive nell’enciclica Fides et ratio (1998): “Le conoscenze fondamentali scaturiscono dalla meraviglia suscitata nell’uomo dalla contemplazione del creato: l’essere umano è colto dallo stupore nello scoprirsi inserito nel mondo, in relazione con altri suoi simili, dei quali condivide il destino. Parte di qui il cammino che lo porterà poi alla scoperta di orizzonti sempre nuovi. Senza meraviglia l’uomo cadrebbe nella ripetitività e, poco alla volta, diventerebbe incapace di un’esistenza veramente personale” (n. 4). La realtà appare dunque come un dato, ossia come un dono, da accogliere nello stupore. E’ questo stupore che suscita la domanda ultima dentro di noi: non una registrazione a freddo, non una semplice costatazione intellettuale, ma una meraviglia gravida di attrattiva. Non c’è posizione più retrograda e falsa di chi ritiene che la religione sia nata dalla paura. La paura non è il primo sentimento dell’uomo. Il primo sentimento è un’attrazione. La paura nasce in un secondo momento come riflesso del pericolo percepito che quella attrazione venga meno. Prima di tutto vi è l’amore all’essere, lo stupore di fronte alla realtà, che si manifesta come attaccamento alla vita: successivamente sorge il timore che quell’evidenza scompaia, che l’essere sfugga di mano…La religiosità è anzitutto l’affermarsi e lo svilupparsi dell’attrazione e della ricerca circa il senso dell’essere. La paura è un’ombra che cala come seconda reazione. L’uomo, una volta che si accorge di questo “essere” reale, percepisce anche che c’è un ordine dentro questa realtà. Questa realtà è “cosmica” (in greco cosmos vuol dire appunto ordine, e caos vuol dire disordine). L’ordine porta con sé la bellezza: lo stupore originario, di cui si parlava sopra, implica l’attrazione verso la bellezza armonica. Qui si coglie tutta l’importanza delle riflessioni di San Tommaso d’Aquino, grande sostenitore (e in questo è debitore ad Aristotele) della “capacità metafisica” della ragione umana. Scrutando e riflettendo sui dati percepiti dai sensi, la ragione dell’uomo è in grado di giungere alla necessità della causa che sta all’origine di ogni realtà sensibile. La Bibbia, nel libro della Sapienza, ha un passo molto chiaro in proposito:

“Davvero stolti per natura tutti gli uomini
che vivevano nell’ignoranza di Dio,
e dai beni visibili non riconobbero colui che è,
non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere.
Ma o il fuoco o il vento o l’aria sottile
o la volta stellata o l’acqua impetuosa o i luminari del cielo
considerarono come dèi, reggitori del mondo.
Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per déi,
pensino quanto è superiore il loro Signore,
perché li ha creati lo stesso autore della bellezza.
Se sono colpiti dalla loro potenza e attività,
pensino da ciò a quanto è più potente colui che li ha formati.
Di fatti dalla grandezza e bellezza delle creature
per analogia si conosce l’autore” (13, 1-5).

Il brano biblico introduce la parola “analogia”, che è molto importante nel nostro itinerario. E’ una parola che deriva dal greco (anà, sopra; lògos, parola, discorso). L’analogia dunque rivela la struttura di impatto dell’uomo con la realtà, che suscita nell’uomo una spinta che lo induce a cercare e a trovare un significato della realtà stessa, un significato che sta più in là, che è oltre, che è appunto anà, più in su, più oltre. Il positivismo, che domina la mentalità dell’uomo di oggi, esclude, invece, la sollecitazione a scoprire il significato che ci viene suggerito dall’impatto originario con la realtà. Vorrebbe imporre all’uomo di fermarsi a ciò che appare; ma questo è soffocante. Infatti, quanto più uno vive intensamente il suo impatto con la realtà, tanto più incomincia a conoscere qualcosa del mistero. Ciò che blocca la dimensione religiosa autentica è una mancanza di serietà e di presa di coscienza del reale. Da qui la conclusione: il mondo è come un parola, un lògos, che rinvia ad altro, è come un invito che fa intravedere un significato, che sta oltre, più su, anà. Il mondo è come un segno che mi rimanda ad altro. Il segno è una realtà il cui senso riposa su un’altra realtà; è una realtà sperimentabile che acquista il suo significato conducendo ad un’altra realtà. Anche nei nostri rapporti quotidiani facciamo ogni giorno esperienza del “segno”: un regalo, un saluto, una stretta di mano, un bacio… sono segni che non si esauriscono in se stessi, ma diventano “significativi” proprio perché rimandano ad altro. Così è l’intero mondo: è un grande segno che rimanda ad altro, anzi ad un Altro. Non solo l’uomo si accorge che la realtà è bella, attira, rimanda ad altro: constata anche che essa si muove secondo un disegno di ragionevolezza. Questa realtà fa il giorno e la notte, il mattino e la sera, stabilisce i cicli per cui l’uomo può ritemprarsi e sostenersi, può riprodursi generando la vita. Le religioni più antiche mettevano in risalto il mistero della fecondità della terra e della donna. E’ quello che adombra anche la Bibbia, dopo il diluvio:

“Il Signore ne odorò la soave fragranza e pensò:
‘Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo,
perché l’istinto del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza;
né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto.
Finché durerà la terra,
seme e messe, freddo e caldo,
estate e inverno, giorno e notte
non cesseranno”

(Gen 8, 21-22).

Ed è quello che adombra San Paolo nel suo discorso a Listra, in Asia Minore, quando, avendo egli compiuto un miracolo, tutta la gente era andata da lui e da Barnaba, prendendo lui per Ermete (il dio più piccolo) e Barnaba per Zeus (il dio più alto e più forte):
“Cittadini, perché fate questo? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi predichiamo di convertirvi da queste vanità al Dio vivente che ha fatto il cielo e la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano. Egli nelle generazioni passate ha lasciato che ogni popolo seguisse la sua strada; ma non ha cessato di dar prova di sé beneficando, concedendovi dal cielo piogge e stagioni ricche di frutti, fornendovi il cibo e riempiendo di letizia i vostri cuori” (Atti 14, 15-17).
Queste sono le tracce del discorso originale di ogni religione antica: il senso del divino come provvidenza.

3. L’io umano

A questo punto, quando è risvegliato nel suo essere dalla presenza, dallo stupore, ed è reso grato, lieto, perché questa presenza può essere benefica e provvidenziale, l’uomo prende coscienza di sé come “io”, ad un livello maturo che gli fa comprendere la statura della sua identità.
Io mi rendo conto che l’evidenza più grande e profonda che percepisco è che io non mi faccio da me. Non mi do l’essere, non mi do la realtà che sono: piuttosto, sono “dato”. E’ il traguardo adulto della scoperta di me stesso come dipendente da qualcosa d’altro. Quanto più io scendo dentro me stesso, tanto più sorge la domanda: donde scaturisco? Non da me: da Altro, che mi ha pensato e voluto uomo o donna, qui e ora… Si tratta della intuizione, che in ogni tempo della storia lo spirito umano più acuto ha avvertito, di questa misteriosa presenza che all’origine del mio io. “Io sono Tu che mi fai”. Questo Tu è ancora assolutamente senza volto: ma è pur sempre la sorgente da dove io sono scaturito. “Tu che mi fai” è Colui che la tradizione religiosa chiama Dio, è Colui che è infinitamente più di me, è Colui per il quale io sono.
L’uomo è quel livello della natura in cui essa si accorge di non farsi da sé, in cui essa diventa esperienza della propria contingenza., coscienza della propria creaturalità. L’uomo si esperimenta contingente: esistente per volontà di altri o di un Altro, perché non si fa da sé. Allora l’”Io sono” in realtà viene identificato con “Io sono fatto”. L’uomo scopre che la propria identità sta nella creaturalità, nell’essere voluto da un Altro. Questa coscienza è ben rappresentata dal bambino tra le braccia del padre e della madre: per cui può entrare in qualsiasi situazione dell’esistenza con una tranquillità profonda, con un atteggiamento di letizia. Non c’è sistema curativo ed educativo che possa prendere il posto del padre e della madre, se non mutilando l’uomo, se non provocando ferite mortali nell’uomo. Così è nel suo rapporto con l’Altro: non c’è sistema curativo ed educativo che possa prescindere dal mistero di Dio. Mutilare Dio, cancellare Dio dall’orizzonte della vita umana significa annullare l’uomo stesso in ciò che egli ha di più profondo, in ciò che egli è.
Nell’io umano, che si accosta alla realtà ed è sorpreso da essa, freme un’altra voce, quella della coscienza, che approva il “bene” e condanna il “male”. E’ ciò che la Bibbia e San Paolo definiscono come “la legge scritta nei nostri cuori”:
“Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono” (Rom 2, 14-15).
La sorgente del nostro essere ci mette dentro la vibrazione del bene e il rimorso del male. Dunque l’esperienza dell’io reca con sé la coscienza del bene e del male, la coscienza di qualcosa cui non si può rifiutare l’omaggio della propria approvazione o l’accusa della propria condanna. Comunque venga applicata questa categoria del bene perché è bene, e del male perché è male, essa è inestirpabile, perché risponde ad una destinazione ultima, risponde al nesso con il nostro destino. E’ qualcosa che mi si impone, mi obbliga a giudicarlo e a riconoscerlo come bene o male. E’ il binario con cui Colui che ci crea convoglia a sé tutta la nostra esistenza: il binario di un bene cui è legato il senso stesso della vita, della propria esistenza, del reale; che è bene e giusto perché è così, non perché è dichiarato così da una legge positiva, ma perché non è alla mercé di niente e di nessuno (“Iussum quia bonum, e non bonum quia iussuma: una cosa è comandata in quanto è buona, non è buona in quanto è comandata). Che una madre voglia bene al suo bambino fino a morire per lui, è bene perché è bene; che si aiuti un estraneo anche con il sacrificio di se stessi e della propria vita, è bene perché è bene…

4. L’esperienza dell’amore

Si tratta di un’esperienza universale, perché

“l’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non si incontra con l’amore, se non lo esperimenta e non lo fa proprio, se non vi parrtecipa vivamente”

(Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, n. 10).

L’apertura agli altri o all’altro (al tu e al noi) è una relazione qualitativamente diversa rispetto a quella che l’uomo vive nei confronti del mondo: è un rapporto di comunione, di andata e ritorno, interattivo, non un rapporto di dominio o di subordinazione. L’altro, chiunque esso sia, è persona, che chiede a me rispetto nei confronti della sua in-violabilità e in-disponibilità. L’atteggiamento opposto è la strumentalizzazione: termine che esprime la varietà dei modi di disporre della libertà dell’altro, di dominarlo e di possederlo, di trattarlo come oggetto dei miei interessi, della mia ideologia, dei miei desideri.
Il valore dell’altro è così assoluto da giustificare l’olocausto di se stessi per il bene dell’altro. Sta proprio qui il culmine della libertà umana, perché solo uscendo pienamente da sé stessi la libertà rivela il suo dinamismo finalistico. E’ questo anche il senso di ogni autentica esperienza di amore. L’amore, aprendosi all’altro e agli altri, è una fuoriuscita da se stessi che non conosce limiti. “La misura dell’amore è di amare senza misura” (S. Agostino).
L’atto con cui una persona, rinunciando a se stessa, si affida al mistero dell’altro – senza sapere l’esito preciso di tale abbandono – affonda le proprie radici nell’atto di affidamento alla incomprensibilità delle nostre origini e del nostro fine. Donandosi all’altro nella forma suprema dell’amore, l’uomo riconosce che il fondamento della propria dignità e del proprio valore sta oltre se stessi. Proprio perché non si può manipolare e possedere l’altro, ma si può solo amarlo, ciò significa che nemmeno l’altra persona costituisce l’assoluto.
L’esperienza originaria del rapporto con l’altro rimanda dunque a un valore incondizionato e assoluto, che sta a fondamento della possibilità e della capacità di avvicinarsi all’altro solo nella forma del rispetto e dell’accoglienza, nella forma dell’amore. “L’amore è ‘estasi’ – così scrive Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est (2005) – ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sè e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio” (n. 6).
L’esperienza dell’amore accende una dinamica che, nel continuo dono di sé all’altro e nel continuo ricevere e accogliere l’amore dall’altro, lumeggia il mistero di un Amore assoluto, fonte e radice di ogni esperienza di amore.

5. L’evento della morte

Il problema della morte è ineludibile in ogni realistica riflessione dell’uomo su di sé. Si presenta come messa in questione radicale del senso della vita, perché ne interrompe la tensione al futuro, interrompe il dinamismo della speranza. Se l’uomo è costitutivamente alla ricerca di senso, se l’uomo è chiamato a vivere il suo rapporto col mondo nella forma di un progresso indefinito, se l’uomo è chiamato a vivere il rapporto con gli altri nella forma dell’amore, a che cosa si riduce la speranza quando si scontra con il muro della morte?
Il problema della morte non è rimandabile agli ultimi istanti della vita, perché l’uomo vive quotidianamente il rapporto con la morte: sia quando vengono meno le persone care, sia quando si fa esperienza della propria precarietà e dei propri fallimenti, sia quando si riflette sulla temporalità e quindi sulla irripetibilità di ogni istante, sia quando si avverte la propria solitudine, sia quando si ha coscienza della prossimità della propria morte. In tutte queste situazioni l’uomo compie un esperienza anticipata della morte, che fa sorgere due domande tra loro interdipendenti: che cosa c’è dopo la morte terrena? Che significato può avere questa esistenza terrena, se essa ha come termine la morte?
L’ipotesi dell’annientamento totale non è solo la negazione di ogni sopravvivenza ultraterrena, ma è la vanificazione di ogni valore terrestre. E’ la rassegnazione a vivere in uno stato di intrinseca ingiustizia, dal momento che in questa vita i conti troppo spesso non tornano. E’ il riconoscere che non c’è motivo al mondo di distinguere fra bene e male, se tutto è ripagato allo stesso modo. E’ la vittoria dell’assurdo, dove il vero e il falso, la bontà e la cattiveria, l’egoismo e la generosità, l’essere e il non essere vengono assimilitati. In tal caso la morte non è solo la fine della vita, ma sarebbe anche l’attestazione che tutta la vita, e dunque tutto l’uomo e tutta la storia umana, è senza ragionevolezza, è senza consistenza.
Ma l’uomo si rassegna, si può rassegnare – senza contraddirsi – alla tragicità e assurdità di tale esito? Come può sopportare, senza ribellarsi, il contrasto – che diventa ingiustificabile – fra il significato della vita, che richiede una pienezza di libertà, di gioia, di amore e di vita senza limiti, e il tramonto di tale significato rappresentato dalla morte? Da qui l’interrogativo: il senso della vita può venire radicalmente dal mondo, da sé, dagli altri, se tutto è soggetto alla sorte della morte?
L’interrogativo si acuisce se si stabilisce un confronto fra l’esistenza dell’uomo e tutte le altre forme infraumane di vita. Mentre nel mondo infraumano la morte viene ritenuta come un aspetto necessario dei processi vegetali e biologici affinché rinasca la vita, nel mondo umano la morte è avvertita come dramma, perché l’uomo non muore come qualsiasi altro essere vivente, e precisamente perché non vive come qualsiasi altro essere vivente. Solo l’uomo è cosciente di ciò che perde con la morte. Solo l’uomo è cosciente di camminare verso la morte, di essere-per-la-morte (Heidegger). E non leniscono, né tanto meno eliminano il problema, alcune soluzioni, del tipo: trasmigrazione delle anime, immortalità e sopravvivenza dell’anima, reincarnazione. Una sopravvivenza solo impersonale e solo spirituale della persona umana è improponibile, perché entra in contraddizione con l’unicità e con l’unità (con la totalità fisico-spirituale) della persona umana.
Si giunge così ad una conclusione, nella forma di un dilemma: o aggrapparsi all’esistenza (carpe diem…) che irrimediabilmente viene meno e quindi non può fondarne il significato ultimo; o riconoscere l’esistenza come ciò che, non venendo da noi, nè dagli altri, né dal mondo, non può che essere un dono che proviene da un mistero che ci sovrasta e che, proprio perché sta all’origine della nostra esistenza, ne costituisce anche il fine.
Possiamo esprimere altrimenti lo stesso dilemma: o ci dichiariamo noi all’origine di noi stessi (ma non abbiamo scelto noi di vivere, né di nascere uomo o donna, né di nascere in un luogo piuttosto che in un altro, in un secolo piuttosto che in un altro…); o ci riconosciamo come creature, dipendenti da un mistero che ci trascende. In altre parole ancora: o la nostra speranza è composta solo di traguardi storici, i quali comunque devono pur fare i conti con il traguado della morte; o la nostra speranza si affida ad un senso ultimo, radicale, che non può che essere metastorico.
Analoghi interrogativi possono essere rivolti alla storia umana nel suo complesso. E’ questa storia incamminata verso una propria pienezza all’interno stesso del mondo? In tal caso l’uomo, soggetto trasformante, si identificherebbe totalmente con il mondo, che diverrebbe un oggetto completamente trasformato: si eliminerebbe quel dislivello fra uomo e mondo che invece costituisce e fonda la diversità e la qualità “altra” dell’uomo rispetto al mondo. Quale genere di uomo sarebbe colui che finisce di sperare, di attendere un futuro? Un uomo siffatto avrebbe costruito con le proprie mani la prigione per la sua stessa libertà: l’uomo, artefice del cambiamento del mondo, si ridurrebbe ad essere schiavo della sua stessa opera. Saremmo di fronte a un totale livellamento fra uomo e natura. Il giorno in cui arrivasse ad un traguardo definitivo all’interno del mondo, l’uomo non potrebbe più sperare nulla di nuovo, ma solo aspettare tragicamente il ritorno del semper-idem, del sempre-uguale. E’ la visione tragica di un certo filone del pensiero greco, che ragiona in termini di ciclicità. E’ la nausea disperata del sempre-uguale, presente anche in certi passi dei libri sapienziali della Bibbia.
Oppure la storia può essere interpretata come un divenire indefinito, un progresso illimitato? Anche in tal caso sorgerebbero pesanti obiezioni: che senso avrebbe una storia concepita come un processo indefinito? E che senso hanno intere generazioni, se tutto passa, se l’intera storia non approda a nessun traguardo?
Solo accogliendo un senso che proviene da “fuori”, la storia stessa può essere vissuta come significativa.

6. Sul sentiero di Dio

L’analisi delle dimensioni fondamentali dell’esistenza umana ci conduce sul sentiero di una dimensione nuova e inattesa, o meglio ci conduce al fondamento che spiega tutte le esperienze umane sopra accennate. E’ il mistero che il linguaggio filosofico e religioso chiama “Dio”. E’ un mistero che non può essere semplicemente il prolungamento o la proiezione amplificata del mistero-uomo, ma deve essere una Persona che non abbia i nostri limiti e che possa fondare tutte le nostre esperienze di amore, di impegno, di speranza. Nella domanda decisiva su di sé, imposta all’uomo dal suo stesso dinamismo, è implicita e implicata la questione di Dio. Se l’uomo, con le sole sue forze, non può risolvere tale questione, non può neppure evitare di porla, perché essa è presente in quella irrequietezza radicale da cui proviene la domanda circa il senso ultimo. L’uomo, per definizione, è domanda illimitata, è ricerca illimitata. Ma tale domanda può evitare la disillusione e lo sconforto solo quando incontra o intravede la risposta. La ricerca dell’uomo può assumere i connotati della libertà e della responsabilità, solo quando comincia a scorgere il porto sospirato: diversamente la domanda si trasforma in dramma e tragedia.
Se la domanda non è certo ancora la risposta, se la sete dell’uomo non dimostra ancora l’esistenza della sorgente, è pur vero che solo quando la sorgente si fa trovare, la sete può essere appagata e chiamata per nome. Solo davanti all’amante, l’amato vive l’amore come risposta ad un dono. Solo davanti al mistero di Dio, che viene incontro all’uomo, l’uomo può decifrare e comprendere il senso stesso del proprio mistero.

Il mito antico che esprime questo dinamismo dell’uomo è il mito di Ulisse. In Dante Alighieri esso ha trovato una forza espressiva come mai altrove. Ulisse è l’uomo intelligente che vuole misurare con il proprio acume tutte le cose. Ulisse percorre in lungo e in largo tutto il mare nostrum. Ma, arrivato alle colonne d’Ercole, si trova di fronte alla persuasione comune che la pienezza della saggezza non è possibile: al di là delle colonne, non v’è più nulla di sicuro, c’è il vuoto e la pazzia. Come chi va oltre le colonne d’Ercole è ritenuto un temerario e un pazzo, così chi va oltre i confini sperimentali positivisticamente intesi, oggi è considerato alla stessa stregua. Ma Ulisse, arrivato alle colonne d’Ercole, sentiva non solo che quella non era la fine e la catastrofe, ma che era un nuovo inizio. Infranse la saggezza allora imperante e andò oltre: andar oltre era nella sua natura di uomo, per cui in quella sua decisione si sentì uomo fino in fondo.
Questa è la lotta di sempre: tra l’umano, ossia il senso religioso e il disumano, che coincide con la posizione positivistica di tanta parte della mentalità odierna, che afferma: “Ragazzo mio, l’unica cosa sicura è ciò che tu constati e misuri scientificamente, sperimentalmente; al di là di questo c’è inutile fantasia, anzi c’è pazzia e falsità, c’è mito e fiaba”.
E’ proprio nel superamento di queste colonne d’Ercole, nello scavalcamento dei confini imposti dalla falsa saggezza, che uno comincia a sentirsi uomo, perché incontra l’oceano del significato. Per Ulisse e per i suoi compagni, desiderosi di “andare oltre”, le colonne d’Ercole non erano un confine, ma un invito e un segno ad andare oltre.
Il mito di Ulisse è descritto dalla Bibbia in termini ancor più espressivi, quando Giacobbe, tornando dall’esilio, di notte ingaggia una lotta con un personaggio sconosciuto, che all’alba riesce ad infliggere un colpo all’anca, per cui Giacobbe andrà zoppo per tutta la vita. Giacobbe verrà chiamato Israele, che significa: “Ho lottato con Dio” (cf.Gen 32, 23-33).
Questa è la statura dell’uomo nella tradizione ebraico-cristiana. La vita, l’uomo, è tensione, è lotta, è rapporto con l’aldilà, con l’oltre: una lotta senza vedere il volto dell’Altro, che si rivelerà come il “Dio-con-noi”, l’Emmanuele. Chi vive questa lotta, è colpito all’anca e diventa zoppo, ossia se ne va in mezzo agli altri ormai segnato: non è più come gli altri uomini, è diverso dagli altri uomini, perché da “turista per caso” diventa “pellegrino”, in cerca dell’Assoluto.
A questo punto si apre il vasto campo della fede. La fede “ci viene a dire che l’uomo non considera il vedere, l’udire e il toccare come la totalità delle cose che lo riguardano, che non ritiene fissati i limiti del suo mondo solo da quanto può vedere e toccare, ma cerca invece una seconda forma di accostamento alla realtà, forma alla quale dà appunto il nome di fede”. In questo modo la fede “implica un’opzione fondamentale nei confronti della realtà in quanto tale, non indica l’accertamento di questo o di quello, bensì un’impostazione di fondo, una forma mentis tendente a far assumere un determinato atteggiamento di fronte all’essere, all’esistenza, alla propria persona e all’intero complesso della realtà” (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia 1969, p. 21).
Questo atteggiamento nuovo nei confronti della realtà implica ciò che il linguaggio biblico chiama “conversione”. Argomenta ancora Ratzinger: “La fede è realmente la conversione, in cui l’uomo scopre di star inseguendo una illusione, qualora si getti unicamente in balia del percettibile. E questa è al contempo la più profonda ragione che spiega perché la fede non sia dimostrabile: essa è una volta dell’essere, per cui solo chi compie tale svolta riesce a concepirla” (ibid., p. 22).
Del resto, tutti i valori, quanto più sono profondi, tanto più richiedono il rischio di un abbandono fiducioso che sta “oltre” ogni raggiunto traguardo, sta “oltre” ogni ragionevole dimostrazione. Questo vale per l’esperienza dell’amore. E vale per l’esperienza della libertà.