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2016.9 Islamici in Cattedrale

ISLAMICI IN CATTEDRALE

Il significato di una presenza

Jacques Hamel  |  Don Alberto Franzini   |   Isabella Guanzini 

In memoria di p. Jacques Hamel

Lo scorso 6 giugno padre Hamel, assassinato il 26 luglio in chiesa a Rouen, aveva pubblicato un editoriale sul bollettino parrocchiale. Un appello profetico ad approfittare delle vacanze estive per rendere il mondo più umano con la preghiera e la misericordia.

​   “La primavera è stata piuttosto fresca. Se il nostro morale è stato un po’ a terra, pazienza, alla fine l’estate arriverà. E anche il momento delle vacanze.

​Le vacanze sono un tempo per prendere le distanze dalle nostre occupazioni abituali. Ma non sono una semplice parentesi. Sono un momento di relax, ma anche di rigenerazione, di incontri, di condivisione, di convivialità.

Un tempo di rigenerazione. Ci sarà chi si prenderà qualche giorno per un ritiro o un pellegrinaggio. Altri rileggeranno il Vangelo, da soli o in compagnia, come una parola che fa vivere l’oggi.
Altri potranno rigenerarsi nel grande libro della creazione ammirando i paesaggi tanto diversi e magnifici che ci elevano e ci parlano di Dio.
L’augurio è che possiamo in quei momenti sentire l’invito di Dio a prenderci cura di questo mondo, a farne, là dove viviamo, un mondo più caloroso, più umano, più fraterno.

Un tempo di incontro, con familiari e amici. Un momento per prendersi il tempo di vivere qualcosa insieme. Un momento per essere attenti agli altri, chiunque essi siano.
Un tempo di condivisione. Condivisione della nostra amicizia, della nostra gioia. Condivisione del nostro aiuto ai figli, mostrando che per noi contano.
Anche un tempo di preghiera. Attenti a ciò che avverrà nel nostro mondo in quel momento. Preghiamo per coloro che ne hanno più bisogno, per la pace, per un migliore vivere insieme.
Sarà ancora l’anno della misericordia. Cerchiamo di avere un cuore attento alle cose belle, a ciascuno e a tutti coloro che rischiano di sentirsi un po’ più soli.
Che le vacanze ci consentano di fare il pieno di gioia, di amicizia e di rigenerazione. Allora potremo, meglio provvisti, riprendere la strada insieme.
Buone vacanze a tutti!.

​Padre Jacques

IL SIGNIFICATO DI UNA PRESENZA

La visita di due rappresentanti islamici nella nostra Cattedrale di Cremona ha suscitato, come è noto, in “casa nostra”, oltre che consensi e incoraggiamenti, anche perplessità e critiche, spinte fino a scomodare una parola grossa: “eresia”, sia pure attribuita alle stravaganze liturgiche, di cui sarebbe un frutto maturo la presenza di persone non cristiane in una chiesa cristiana.

Riandiamo alle origini e quindi alle ragioni di quell’evento, per capirlo nella sua vera portata.

La richiesta dell’imam di Cremona, Noureddine Lakrichat e di Sadiq El Hassan, portavoce del Centro Culturale Islamico “La speranza” di presenziare, domenica 7 agosto u.s. alla celebrazione festiva nella nostra Cattedrale per rivolgere ai presenti, al termine della celebrazione eucaristica, la loro parola, era motivata da una decisione, presa dal Consiglio francese per il culto musulmano. Proprio per esprimere piena solidarietà alla comunità cattolica, colpita al cuore dalla barbara uccisione di padre Jacques Hamel avvenuta il 26 luglio presso la chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, vicino a Rouen, e proprio in chiesa durante la celebrazione della messa, e per condannare ogni azione terroristica e blasfema compiuta in nome di Dio, il Consiglio francese ha invitato i fedeli musulmani a presenziare alle celebrazioni festive nelle chiese cattoliche. Quasi un gesto riparatore: una barbarie compiuta in una chiesa cristiana doveva ricevere una visibile presa di distanza proprio nelle chiese dei cristiani.

La proposta, accolta favorevolmente dall’Episcopato francese, è stata rilanciata anche in Italia da CO.RE.IS (Comunità Religiosa Islamica) e U.CO.I.I. (Unione Comunità Islamiche Italiane) ed ha avuto una immediata accoglienza anche da parte della Conferenza Episcopale Italiana.

Lo stesso card. Bagnasco, in una intervista di quei giorni, auspicava una presa di posizione, chiara e senza ambiguità, dei fedeli musulmani, invitati a condannare senza riserve ogni gesto di violenza e di uccisione, tanto più grave se compiuto in nome di Dio. Sono state le comunità islamiche a invitare i fedeli musulmani a recarsi nelle chiese cattoliche per compiere un tale gesto. Un rifiuto da parte cattolica sarebbe suonato inspiegabile e controproducente e avrebbe alimentato quel clima di incomprensione e di ostilità strisciante verso i migranti e le persone di altre fedi che rappresenta un ostacolo per la pacifica convivenza nelle nostre terre. Il card. Bagnasco ha accolto subito con favore la presenza dei rappresentanti musulmani alle celebrazioni festive nelle domeniche successive. In una successiva intervista a Radio Vaticana, il card. Bagnasco, all’osservazione che ci sono stati dei settori cattolici che hanno criticato la presenza dei musulmani nelle chiese, ha così risposto: «Veramente non capisco il motivo. Il motivo non mi sembra proprio esistente: è un segno di una presenza che vuole essere una parola di condanna, di presa di distanza assoluta, chiara, da parte di tutti coloro, musulmani innanzitutto ma non solo, che non accettano alcuna forma di violenza, ammantata da nessuna ragione e tantomeno di carattere religioso”. E aggiungeva: «Subito dopo quel fatto gravissimo della morte, dell’uccisione violenta di quel sacerdote in Normandia, i vescovi italiani hanno chiesto un grande aiuto al mondo islamico moderato, perché riteniamo che la prima reazione migliore sia proprio quella di una voce unitaria di condanna assoluta e senza esitazione da parte di tutto il mondo islamico moderato. E questo c’è stato in molte parti della nostra Italia e di questo siamo molto rallegrati. È un segno: non è nient’altro che un segno, ma un segno – ripeto – molto importante e molto significativo!».

L’evento, celebrato nella nostra Cattedrale, è avvenuto in molte chiese e cattedrali, non solo italiane, ma anche francesi e in altri Paesi europei. Il gesto – pubblicamente espresso, auspicato da tempo – va dunque salutato positivamente, soprattutto nell’ attuale acuirsi del terrorismo islamista. Il gesto ha raggiunto lo scopo per cui è stato proposto e compiuto: la solidarietà alla Chiesa cattolica per l’uccisione di padre Jacques, e la condanna di ogni forma di violenza terroristica compiuta in nome della religione. Ogni altra interpretazione dell’evento risulta fuorviante.

La presenza dei musulmani in Cattedrale non era una “partecipazione liturgica” alla nostra celebrazione eucaristica (cosa ovviamente impossibile), non era un tentativo di banale irenismo (“tutte le religioni sono uguali”: se così fosse, perché non ipotizzare una religione unica e universale?), non era – da parte cattolica – uno sminuire e uno svendere la nostra identità cristiana (il pericolo, certo, esiste nel nostro Occidente laicista e secolarizzato: ma questo è un altro discorso). Quel gesto va dunque collocato e letto non sul piano liturgico e dottrinale, ma sul piano umano, culturale e sociale.

Benedetto XVI è stato un maestro in questo campo: nessuna confusione dottrinale, nessun compromesso teologico, nessun indebolimento dei dogmi della nostra fede cristiana, ma nello stesso tempo impegno pastorale e collaborazione sociale e culturale con il mondo musulmano.

Papa Benedetto ha sempre percepito e capito che l’Islam è una religione profondamente diversa dal Cristianesimo e che dunque il dialogo interreligioso con l’Islam presenta notevoli difficoltà. Ma questo non impedisce, non deve impedire – sosteneva Benedetto XVI – di compiere tratti comuni di strada di fronte alle sfide del nostro tempo in difesa della persona umana.

A Colonia, durante la Giornata Mondiale della Gioventù (agosto 2005), Benedetto XVI ha rivolto un discorso fondamentale ai rappresentanti delle comunità musulmane. Ecco i passi principali.

     “Sono certo di interpretare anche il vostro pensiero nel porre in evidenza, tra le preoccupazioni, quella che nasce dalla constatazione del dilagante fenomeno del terrorismo […] Il terrorismo, di qualunque matrice esso sia, è una scelta perversa e crudele, che calpesta il diritto sacrosanto alla vita e scalza le fondamenta stesse di ogni civile convivenza. Se insieme riusciremo ad estirpare dai  cuori il sentimento di rancore, a contrastare ogni forma di intolleranza e ad opporci ad ogni manifestazione di violenza, freneremo l’ondata di fanatismo crudele che mette a repentaglio la vita di tante persone, ostacolando il progresso della pace nel mondo.

E aggiunse una considerazione di notevole portata:

“Cari amici, sono profondamente convinto che dobbiamo affermare, senza cedimenti alle pressioni negative dell’ambiente, i valori del rispetto reciproco, della solidarietà e della pace. La vita di ogni essere umano è sacra sia per i cristiani che per i musulmani. Abbiamo un grande spazio di azione in cui sentirci uniti al servizio dei fondamentali valori morali. La dignità della persona e la difesa dei diritti che da tale dignità scaturiscono devono costituire lo scopo di ogni progetto sociale e di ogni sforzo posto in essere per attuarlo”.

Ed ecco:

“E’ questo un messaggio scandito in modo inconfondibile dalla voce sommessa ma chiara della coscienza. E’ un messaggio che occorre ascoltare e far ascoltare: se se ne spegnesse l’eco nei cuori, il mondo sarebbe esposto alle tenebre di una nuova barbarie. Solo sul riconoscimento della centralità della persona si può trovare una comune base di intesa, superando eventuali contrapposizioni culturali e neutralizzando la forza dirompente delle ideologie”.

Per Benedetto XVI, dunque,  il dialogo con l’Islam e anche con le altre religioni non può essere essenzialmente un dialogo dottrinale o teologico, se non nel senso largo di valori morali fondamentali, ma piuttosto un dialogo di culture e di civiltà.      Prima della religione, c’è la voce della coscienza; tutti dobbiamo lottare per la dignità della persona, per la sua libertà, per la condanna di ogni violenza omicida e per la difesa dei diritti, a partire dal sacrosanto diritto alla vita. Da qui l’importanza della retta razionalità, che sta alla base anche della fede cristiana, per confrontarci con l’Islam e con le grandi religioni asiatiche.

La chiarezza dottrinale, che non va mai né trascurata, né sminuita, non può mai diventare rigidità pastorale a danno delle persone. E il dialogo culturale – a cui non possiamo sfuggire, perché i musulmani e le persone di altre religioni sono ormai presenti nelle nostre società occidentali – non può avvenire sulle sabbie mobili di un irenismo dottrinale, ma solo sulla base comune della coscienza, della razionalità, della comune natura umana. Il dialogo non può essere gestito secondo i parametri dottrinali della nostra fede cristiana. Non è insistendo sui dogmi delle rispettive fedi che il dialogo potrà essere fruttuoso e far compiere passi in avanti, bensì è l’azione comune nella società di fronte alle sfide dei tempi: questo è il cammino che si può e si deve compiere insieme. Questo atteggiamento non vuole e non deve affatto sminuire l’annuncio esplicito della verità evangelica, ma va compreso e vissuto come parte integrante della missione evangelizzatrice della Chiesa. Su questo tema rimane fondamentale il documento “Dialogo e annuncio” del Pontificio Consiglio del Dialogo Interreligioso, del 1991.

 

Questa linea è fatta propria anche da Papa Francesco. Nella Evangelii Gaudium scrive: “Di fronte ad episodi di fondamentalismo violento che ci preoccupano l’affetto verso gli autentici credenti dell’Islam deve portarci ad evitare odiose generalizzazioni, perché il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono ad ogni violenza” (n. 253).

Papa Francesco cerca in tutti i modi di accogliere l’altro, chiunque esso sia, a qualunque tradizione religiosa o non religiosa appartenga, purchè cerchi la verità, la bontà e la bellezza. Nello stesso tempo Papa Francesco critica ogni sincretismo conciliante, quando scrive che “la vera apertura implica il mantenersi fermi nelle proprie convinzioni più profonde, con una identità chiara e gioiosa, ma aperti a comprendere quelle dell’altro e sapendo che il dialogo può arricchire ognuno(Evangelii Gaudium, n. 251).

E’ sullo sfondo di queste considerazioni che va compreso il gesto della presenza dei musulmani nella nostra Cattedrale, così come può essere compresa la nostra presenza, in simili casi, nelle moschee o nei templi di altre religioni: come hanno fatto i nostri Papi visitando moschee e sinagoghe.

Si poteva scegliere un altro luogo e un’altra modalità per tale gesto? Si doveva forse preparare meglio l’incontro, sia sul versante cristiano che su quello islamico? Può essere. Ma in quel frangente è apparso opportuno e necessario un gesto esplicito da parte islamica: di solidarietà con i cristiani e di condanna della violenza. E dove trovare riunita la comunità dei cristiani cattolici, se non nelle chiese il giorno domenicale? E non è forse la Cattedrale un luogo altamente simbolico? Simbolico sia dal punto di vista strettamente religioso (i musulmani sono venuti a trovarci “in casa nostra”, nella casa della preghiera: ricordo che Abu Mazen, insieme ad altri rappresentanti del governo palestinese, ogni Natale è presente alla messa di mezzanotte nella chiesa di S. Caterina a Betlemme), sia dal punto di vista anche civile e culturale. Non dimentichiamo che le Cattedrali medievali, compresa la Cattedrale di Cremona, sono state considerate anche luoghi assembleari della civitas. E’ vero che la civitas medievale era unita nella professione dell’unica fede cristiana e dunque non è paragonabile alla civitas odierna, frastagliata e pluralistica. Ma è altrettanto vero che il popolo cristiano riteneva non sacrilego affrontare le sfide del proprio tempo nel luogo “sacro” della Cattedrale.

Ed è altrettanto vero che la “sacralità”, come la concepisce il Cristianesimo, è alquanto diversa dalla “sacralità” come è concepita nelle altre religioni. La sacralità cristiana non è esclusiva ed escludente, non è divisiva (come ad es, nell’ebraismo, dove vige la distinzione-opposizione tra sacro e profano, tra cibi mondi e cibi immondi), ma è piuttosto inclusiva, ossia radicata nell’umano e aperta all’umano, considerato il luogo-principe dove si possono incontrare le persone “immagine e somiglianza di Dio”.

Il Vaticano II ci ricorda una verità basilare della nostra fede cristiana: “Poiché in Cristo la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime. Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo (Gaudium et spes, 22). Se il cristiano è cosciente che, con il battesimo e l’eucaristia, è diventato tempio di Dio, non può per questo dimenticare che ogni persona umana è il sacrario di Dio, è il plastico vivente di Dio nel nostro mondo. Non c’è tempio migliore dell’uomo vivente. La grazia cristiana “suppone la natura umana e la porta a compimento” (“gratia supponit et perficit naturam”, afferma il tradizionale linguaggio teologico desunto da San Tommaso). Il carattere “perfettivo”, piuttosto che “oppositivo” del Cristianesimo va oggi, come da sempre e ovunque, ripreso e recuperato, e applicato nell’evangelizzazione, nell’azione missionaria della Chiesa, nel dialogo con le altre religioni, oltre che nella formazione del popolo cristiano per favorirne l’inserimento nel mondo. Il rapporto “natura-grazia”, analogo al rapporto “ragione-fede” – un rapporto da sempre tenuto insieme nella dottrina e nella teologia cattolica (diversamente dal pensiero protestante, che, notoriamente, all’et-et preferisce l’aut-aut) – rimane fondamentale per rinvenire in quella “cosa comune”, che è la nostra natura umana, il terreno di dialogo con chiunque, nella piena consapevolezza che la natura umana è il riflesso del mistero di Dio nel nostro mondo. Il salmo 8 ce lo ricorda: “Quando vedo i cieli, opera delle tue dita… che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio d’uomo perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato”.

 

Lo sguardo che dobbiamo coltivare verso ogni persona è lo stesso sguardo di Dio, che nel Figlio Gesù “vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1Tm 2, 4). Gesù stesso, quando profetizza la sua morte redentrice, afferma: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Il Cristianesimo proclama dunque una “attrazione” misteriosa, ma reale e universale da parte di Cristo, dalla quale nessuno è aprioristicamente escluso, se non nel modo di una

 

 

scelta libera e cosciente contro Cristo e contro la verità di Dio deposta nella coscienza di ogni essere umano.

     Vale la pena ricordare anche, come conseguenza, un’altra verità, da sempre affermata nella dottrina della Chiesa. Già San Giustino (II sec. d.C.) affermava che il Logos, ossia il Verbo di Dio, è disseminato in tutta la storia umana. Il Concilio Vaticano II riprende questa dottrina dei “semina Verbi” (i germi del Verbo), quando dice in alcuni suoi documenti che i ‘semina Verbi’ sono la misteriosa presenza di Cristo salvatore in tutte le religioni, in tutto quello che esse possono avere di “vero e santo” e quindi anche di salvifico, sempre però attraverso Cristo per vie che solo lui conosce. La Dichiarazione sulle religioni non cristiane esprime il medesimo concetto, ricorrendo all’immagine del raggio di luce: «La Chiesa cattolica non rigetta nulla di quanto c’è di vero e di santo in queste religioni. Guarda con sincero rispetto a quei sistemi di agire e di vivere, a quei precetti e a quelle dottrine che, sebbene differiscano in molti punti da ciò che essa pensa e propone, tuttavia non di rado riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini» (Nostra aetate, n. 2).

Analogamente, la Costituzione dogmatica sulla Chiesa del Vaticano II così si esprime in un passo classico:Il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in particolare i musulmani, i quali, professando di avere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso che giudicherà gli uomini nel giorno finale. Dio non é neppure lontano dagli altri che cercano il Dio ignoto nelle ombre e sotto le immagini, poiché egli dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa (cfr At 1,7,25-26), e come Salvatore vuole che tutti gli uomini si salvino (cfr. 1 Tm 2,4). Infatti, quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa ma che tuttavia cercano sinceramente Dio e coll’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di lui, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna. Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che non sono ancora arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di Dio, ma si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta. Poiché tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione ad accogliere il Vangelo e come dato da colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita (Lumen Gentium n. 16). Il non cristiano, dal punto di vista religioso, non va considerato “nelle tenebre”, non è un “infedele” dal punto di vista salvifico, non è “abbandonato da Dio”. Per i motivi che sono stati appena enunciati: in ogni persona, creata ad immagine di Dio, c’è una misteriosa ma reale presenza del Verbo che la rende capace di rendere gloria a Dio, come ben si esprime l’apertura della terza Preghiera eucaristica: “Padre veramente santo, a te la lode da ogni creatura”; e la quarta Preghiera eucaristica quando dice: “”Quando l’uomo perse la tua amicizia, tu non l’hai abbandonato in potere della morte, ma nella tua misericordia a tutti sei venuto incontro perché coloro che ti cercano ti possano trovare”. Ogni uomo è stato reso “capax Dei”, capace di entrare in relazione con Dio, perché Dio in Cristo è entrato in relazione con ogni uomo, “attraverso vie che lui solo conosce” (Ad gentes, n, 7). Nel cuore di ogni uomo lavora la grazia di Dio: “Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel mondo che Dio conosce, col mistero pasquale” (Gaudium et spes, n. 22).


     Dopo il Concilio, le metafore dei semina Verbi e della praeparatio evangelica sono state riprese dai Sommi Pontefici. Paolo VI, nell’Esortazione apostolica sull’evangelizzazione, afferma: «[Le religioni non-cristiane] sono tutte cosparse di innumerevoli “germi del Verbo” e possono costituire una autentica “preparazione evangelica”, per riprendere una felice espressione del Concilio Vaticano II tratta da Eusebio di Cesarea» (Evangelii nuntiandi , n. 53).

Da parte sua, Giovanni Paolo II, nella sua prima enciclica, scrive: «Giustamente i Padri della Chiesa vedevano nelle diverse religioni quasi altrettanti riflessi di un’unica verità come “germi del Verbo”, i quali testimoniano che, quantunque per diverse strade, è rivolta tuttavia in una unica direzione la più profonda aspirazione dello spirito umano, quale si esprime nella ricerca di Dio ed insieme nella ricerca, mediante la tensione verso Dio, della piena dimensione dell’umanità, ossia del pieno senso della vita umana» (Redemptor hominis, n. 11).

E’ quanto enunciato da S. Tommaso nel celebre aforisma: “Omne verum a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est” (I-II a.1. ad 1: “Ogni verità, da chiunque sia detta, viene dallo Spirito Santo”). Il card. Biffi, che nei suoi scritti e nella sua predicazione ha fatto largo uso di questa formula, in un suo commento così diceva: “E’ un’affermazione molto preziosa, perché riconosce non solo l’esistenza di un irradiamento ‘pneumatico’ che va ben oltre l’area dell’appartenenza ecclesiale, ma anche che possiamo e dobbiamo ascoltare ogni parola di luce, una volta riconosciuta come tale, da qualsiasi bocca venga pronunciata(Bologna, Convegno di studio sul dialogo, 6 maggio 1998).

 

A conclusione di queste riflessioni voglio ringraziare i rappresentanti islamici della nostra Città per la loro partecipazione al nostro dolore per l’uccisione di padre Jacques Hamel e per la loro dichiarata condanna di ogni violenza perpetrata in nome di Dio. Esprimo anche la nostra vicinanza alle comunità islamiche, anch’esse duramente colpite da azioni terroristiche.

Don Alberto Franzini

canonico parroco

 

Cremona, 29 agosto 2016,

memoria del martirio di San Giovanni Battista

 

 

 

 

 

CONTRO L’ERESIA DELLA FORMA: CRISTIANESIMO E SEGNI DEI TEMPI

Purtroppo non si tratta della conquista «di un rinnovato clima culturale», come afferma don Nevi nella sua comunicazione ai parrocchiani. Questo clima appare al contrario sempre più avvelenato, diviso e reattivo. La tensione crescente che si percepisce per le strade delle città europee (perché in molte altre parti del mondo è già guerra da tempo) non annuncia nulla di buono. Anzi, profetizza sventure peggiori di guerre civili, ossia della forma ipermoderna del conflitto interna alle regioni abitate dal pluralismo multiculturale (che è poi la realtà che viviamo e sempre più vivremo). La questione che deve essere sollevata, invece di rinforzare gli argomenti che accentuano il conflitto, è piuttosto l’urgenza assoluta e improcrastinabile – cristiana nelle sue viscere! – di un nuovo clima religioso.

L’iniziativa di una comune preghiera in Duomo a Cremona (come in altre cattedrali perfettamente cattoliche dell’Europa) è l’antidoto che anticipa, sbarrandole la strada, quella “eresia dell’informe” che costituisce il carattere distruttivo degli estremismi religiosi contemporanei: vera e propria religione del risentimento settario, che finisce per insidiare la stessa comunità cristiana. Ma è anche perfetto antidoto a quella “eresia della forma”, che rischia di generare un «cristianesimo monoculturale e monocorde» (Evangelii Gaudium, 117), trincerato in una «rigidità autodifensiva» (EG, 45), prigioniera di «un groviglio di ossessioni e procedimenti» (EG, 49).

L’invito a pregare insieme, nello spazio sacro di una Cattedrale è, innanzitutto, una generosa ripresa e conferma dello spirito e della lettera della Giornata di preghiera delle religioni per la pace, celebrata nella Basilica inferiore di Assisi il 27 ottobre 1986. Quell’evento – iniziativa ineccepibilmente cattolica, nella forma e nella sostanza – rappresentò davanti al mondo il preludio a un cambiamento epocale nell’Est europeo e la testimonianza di ciò che i credenti di fedi diverse, lasciandosi beneficamente contagiare dallo spirito evangelico di Gesù, possono fare per un clima di convivenza più umano. Dopo gli eventi luttuosi dell’11 settembre, Giovanni Paolo II invitò nuovamente, nello “spirito di Assisi”, a pregare insieme: «Vorrei annunciare che è mia intenzione invitare i rappresentanti delle religioni del mondo a venire ad Assisi il 24 gennaio 2002 a pregare per il superamento delle contrapposizioni e per la promozione dell’autentica pace. Ci si vuol trovare insieme, in particolare cristiani e musulmani, per proclamare davanti al mondo che la religione non deve mai diventare motivo di conflitto, di odio e di violenza» (Angelus del 18 novembre 2001). L’incontro si concluse con un gesto di pace e un abbraccio fraterno, nel nome di un impegno e di una testimonianza comuni. Definire eresia ciò che corrisponde a un invito papale non appare quantomeno elegante. Di certo, cattolicamente eccepibile. Ma questo non è il punto.

La questione investe un tema più generale, di innegabile complessità (e questo, già di per sé, sconsiglia di ridurlo in termini puramente catechistici). Si tratta del ruolo delle religioni nella odierna società plurale, che anche nella nostra realtà, italiana e cremonese, non si pone più come un semplice tema di buon vicinato, ma come una questione di buona convivenza, di cittadinanza e di cooperazione. In altri termini, come un tema che definisce meglio – o compromette irrimediabilmente – la qualità del legame sociale e umano.

Non è proprio il Cristianesimo, che ha come punto di gravitazione non un galateo sociale o un codice di precetti, bensì un evento – anzi, l’Evento – del riscatto e della comunione come opera di Dio, che deve farsi interrogare per primo dagli eventi che minacciano riscatto e comunione fra gli uomini (peggio ancora se giustificati “in nome di Dio”, da qualsiasi parte, e in qualsiasi modo, lo si chiami in causa)? Soprattutto i cristiani hanno il compito di scrutare per primi i «segni dei tempi», e assecondare lo Spirito che li interpreta e li muove verso la verità di Dio. Questo non è soltanto un insegnamento capitale del Concilio Vaticano II, ma il seme autentico del Vangelo stesso: «Non sapete distinguere – chiede una volta Gesù ai suoi ostili e malfidi ascoltatori – i segni dei tempi?» (Mt. 16, 4). E Giovanni XXIII, nel documento di indizione del Concilio, scrive: «Facendo nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere i segni dei tempi, crediamo di scoprire, in mezzo a tante tenebre, numerosi segnali che ci infondono speranza sui destini della chiesa e dell’umanità». La vigilanza e la sensibilità per la situazione sono da sempre un imperativo categorico del cristiano, come già San Paolo annunciava appassionatamente alle sue comunità. La preghiera insieme è uno di questi segnali profetici, direi il più fondamentale, per nutrire, dalle radici, un nuovo umanesimo delle genti. La nuova presenza dell’Islam è certamente un segno forte dell’urgenza di interpretare questo tempo, e la nuova questione dei rapporti fra democrazia e religioni, nell’orizzonte cristiano dell’adorazione di Dio in Spirito e verità (Gv 4:23). È la nuova sfida e la nuova realtà. Come non cercare ogni spazio possibile di incoraggiante e pacifica convivenza, per fronteggiare insieme il degrado dei fondamentalismi, e creare lo spazio di un confronto spirituale capace di prevenire la rassegnazione all’incomprensione e al conflitto? E quali mezzi migliori sono disponibili, per la coscienza autenticamente religiosa, se non quelli spirituali – non politici, non mondani – dell’ospitalità nella cornice della preghiera, dell’invocazione nel luogo del rito, dello scambio del segno di pace? Che cosa abbiamo di meglio della celebrazione della nostra fede, per rendere accessibile lo spirito del perdono, del riscatto, della riconciliazione che affondano le loro radici nel cuore dell’evento cristiano, che noi confessiamo come l’atto unico e irrevocabile della verità dell’amore di Dio, e del carattere incondizionato dell’amore del prossimo che gli rende testimonianza? Nella condivisione della preghiera che si fa segno di contatto, fisico e spirituale, fra i banchi di una chiesa, non si tratta di comunione sacramentale dell’informe e dell’indistinto, ma di ospitalità pura nello spazio di una celebrazione liturgica, che rimane inequivocabilmente e teologicamente cristiana. (Una secolare tradizione cattolica, che dura sino a oggi, non ha forse già sempre saggiamente esercitato questa più ampia funzione di segno, attraverso l’ospitalità di rappresentanze politiche e civili, anche perfettamente non credenti, come segno incoraggiante di legame sociale, di pacifica convivenza, di rispetto reciproco, a beneficio dell’intera comunità?).

Oggi, soprattutto i credenti sono chiamati a creare amicizie spirituali vere, a intrecciare fili di sensibilità e prossimità umana e tagliare i fili del rifiuto e del sospetto nel tessuto delle reciproche comunità. In una società “liquida”, e in una cultura “informe”, chi potrà favorire pratiche di prossimità e di fraternità, in questo tempo pieno di paura e di spaesamento, affollato di uomini e donne letteralmente senza paese?

Nella nostra situazione di generale sfinimento e di miseria simbolica, in cui non si percepisce più il disagio della civiltà ma la civilizzazione stessa come disagio, le religioni hanno una responsabilità epocale inedita, che urge una nuova intelligenza delle relazioni e una presenza che unisce. Papa Francesco invita a «superare il sospetto, la sfiducia permanente, la paura di essere invasi, gli atteggiamenti difensivi che il mondo attuale ci impone. Molti tentano di fuggire dagli altri verso un comodo privato, o verso il circolo ristretto dei più intimi, e rinunciano al realismo della dimensione sociale del Vangelo» (Evangelii Gaudium, 88). Si tratta invece di annunciare il Vangelo della misericordia e del perdono, per interrompere la catena infinita dell’odio e della rivalsa, condannare le derive fondamentalistiche delle proprie comunità, per dare linfa a una circolazione di affetti e legami buoni nello spazio della vita comune. E di ignorare ogni appello alla difesa aggressiva dei propri confini identitari, che non sono altre che maschere soffocanti della nostra incapacità di accettare l’altro che è in noi. Il Cristianesimo ha una dottrina, una liturgia e un diritto canonico, ma non è una dottrina, una liturgia o un diritto canonico. Se si riduce a essi, infatti, diviene una religione settaria e aggressiva (come quella da cui ci si vorrebbe distinguere), dispensatrice di formule e di etichette liturgiche, ma povera di Spirito e di umanità. Non abbiamo oggi alcun bisogno di questo. I segni dei tempi urgono un nuovo sguardo e un nuovo cuore. Non abbiamo affatto bisogno di esperienze di fede che siano mere riserve di identità garantite, nutrite dall’idolo del settarismo, che è una vera e propria eresia della forma.

L’invito a pregare insieme nelle Cattedrali d’Europa voleva essere semplicemente una testimonianza di questo: l’odio va combattuto, dentro e fuori la religione. Una morale del risentimento e una religione del risentimento sono il terreno di cultura più insidioso per la proliferazione del peccato nel mondo. Chiedere alla religione di attestarsi rocciosamente su questo spirito, e insieme gridare al tradimento quando lo fa con i mezzi della religione, non può che incoraggiare i predicatori dell’inimicizia inevitabile e totale. Chi è disposto a imparare dall’obbedienza di Gesù, mite e umile di cuore, come si adora Dio in spirito e verità, preghi perché veniamo liberati, fin dentro i luoghi sacri, dagli spiriti maligni dell’informe e dall’insidiosa idolatria delle forme.

 

Isabella Guanzini

(docente di Teologia Fondamentale

all’Università di Graz – Austria)

 

Il testo, pubblicato sul giornale La Provincia il 18 agosto u.s, ci è stato gentilmente concesso dall’autrice, che sentitamente ringraziamo.