Prenota ora la tua visita

2018.13 Di fronte al fine-vita

Di fronte al “fine-vita”

Papa Francesco

 

Più volte Papa Francesco ha fatto sentire la sua voce sulle questioni riguardanti il “fine-vita”. I suoi interventi su questo tema come sul tema della difesa e della inviolabilità e sacralità di ogni vita umana, costituiscono un prezioso insegnamento e offrono un importante orientamento nel panorama culturale attuale, che sembra subire sempre più il fascino del “diritto a morire” come espressione massima del principio di autodeterminazione.

Il Papa nei suoi interventi, se da una parte riconosce gli enormi progressi della scienza e della medicina per alleviare le tante sofferenze umane, mette in guardia dal pericolo di considerare la vita una merce di scambio e di scarto. Soprattutto rileva la contraddittorietà del discorso sui “diritti umani”, oggi invocati da tutti, mentre si dimentica proprio il “diritto primordiale” a vivere, che è alla base di tutti gli altri diritti. In queste ultime settimane, il Papa ha moltiplicato i suoi interventi sull’eutanasia. In un articolato Messaggio ai partecipanti al Meeting Regionale europeo della “World Medical Association” del novembre scorso, il Papa ha ribadito la posizione della Chiesa in materia, già sostanzialmente definita da Pio XII circa la proporzionalità delle cure e che può essere sinteticamente espressa con il “no all’eutanasia” e il “no all’accanimento terapeutico”.    Intervenendo alla Congregazione per la dottrina della fede il 26 gennaio scorso, Papa Francesco ha dichiarato che oggi si assiste a «una crescita della richiesta di eutanasia come affermazione ideologica della volontà di potenza dell’uomo sulla vita». Ed è proprio l’antropologia il terreno comune di dialogo con le componenti culturali del nostro tempo. Un tempo in cui “l’uomo non sa più chi è”. E proprio questa fluidità e liquidità sull’identità della persona umana è la causa del disorientamento attuale circa il bene autentico dell’uomo. Nello scenario attuale, in cui l’uomo sembra aver smarrito il senso della sua dignità e del suo destino «occorre ribadire – ha affermato Papa Francesco – che la vita umana, dal concepimento fino alla sua fine naturale, possiede una dignità che la rende intangibile».

Nella Lettera che il card. Parolin scrive, a nome del Papa, a mons. Paglia Presidente della Pontificia Accademia per la Vita in occasione del Convegno sulle cure palliative il 28 febbraio scorso, si recupera la vocazione più profonda della medicina «che consiste prima di tutto nel prendersi cura: il suo compito è di curare sempre, anche se non sempre è possibile guarire». Nella Lettera si insiste sulla dimensione relazionale della persona umana: una dimensione che va perseguita e vissuta durante l’intero corso della vita e che risulta insuperabilmente preziosa nella fase terminale.

         In questo Quaderno dunque mettiamo a disposizione di tutti i principali interventi del Papa sul tema del “fine-vita”, perché possano entrare in circolo in una cultura, come l’attuale, dove la persona umana, esasperando il proprio diritto alla autodeterminazione, rischia una desolante solitudine narcisistica, che lo rende incapace di affrontare con dignità e con speranza l’ultimo tratto della propria avventura umana.

        A conclusione del Quaderno vengono ripubblicati due miei interventi su queste tematiche, apparsi recentemente sul quotidiano La Provincia.

Don Alberto Franzini

 

 

Cremona, 22 febbraio 2018

Cattedra di San Pietro Apostolo

 

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL’INCONTRO PROMOSSO DALLA
FEDERAZIONE INTERNAZIONALE DELLE ASSOCIAZIONI DEI MEDICI CATTOLICI

Sala Clementina, Venerdì, 20 settembre 2013

 

  1. La prima riflessione che vorrei condividere con voi è questa: noi assistiamo oggi ad una situazione paradossale, che riguarda la professione medica. Da una parte constatiamo – e ringraziamo Dio –  i progressi della medicina, grazie al lavoro di scienziati che, con passione e senza risparmio, si dedicano alla ricerca delle nuove cure. Dall’altra, però, riscontriamo anche il pericolo che il medico smarrisca la propria identità di servitore della vita. Il disorientamento culturale ha intaccato anche quello che sembrava un ambito inattaccabile: il vostro, la medicina! Pur essendo per loro natura al servizio della vita, le professioni sanitarie sono indotte a volte a non rispettare la vita stessa. Invece, come ci ricorda l’Enciclica Caritas in veritate, «l’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo”. Non c’è vero sviluppo senza questa apertura alla vita. “Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono. L’accoglienza della vita tempra le energie morali e rende capaci di aiuto reciproco» (n. 28). La situazione paradossale si vede nel fatto che, mentre si attribuiscono alla persona nuovi diritti, a volte anche presunti diritti, non sempre si tutela la vita come valore primario e diritto primordiale di ogni uomo. Il fine ultimo dell’agire medico rimane sempre la difesa e la promozione della vita.
  2. Il secondo punto: in questo contesto contraddittorio, la Chiesa fa appello alle coscienze, alle coscienze di tutti i professionisti e i volontari della sanità, in maniera particolare di voi ginecologi, chiamati a collaborare alla nascita di nuove vite umane. La vostra è una singolare vocazione e missione, che necessita di studio, di coscienza e di umanità. Un tempo, le donne che aiutavano nel parto le chiamavamo “comadre”: è come una madre con l’altra, con la vera madre. Anche voi siete “comadri” e “compadri”, anche voi.

Una diffusa mentalità dell’utile, la “cultura dello scarto”, che oggi schiavizza i cuori e le intelligenze di tanti, ha un altissimo costo: richiede di eliminare esseri umani, soprattutto se fisicamente o socialmente più deboli. La nostra risposta a questa mentalità è un “sì” deciso e senza tentennamenti alla vita. «Il primo diritto di una persona umana è la sua vita. Essa ha altri beni e alcuni di essi sono più preziosi; ma è quello il bene fondamentale, condizione per tutti gli altri» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’aborto procurato, 18 novembre 1974, 11). Le cose hanno un prezzo e sono vendibili, ma le persone hanno una dignità, valgono più delle cose e non hanno prezzo. Tante volte, ci troviamo in situazioni dove vediamo che quello che costa di meno è la vita. Per questo l’attenzione alla vita umana nella sua totalità è diventata negli ultimi tempi una vera e propria priorità del Magistero della Chiesa, particolarmente a quella maggiormente indifesa, cioè al disabile, all’ammalato, al nascituro, al bambino, all’anziano, che è la vita più indifesa.

Nell’essere umano fragile ciascuno di noi è invitato a riconoscere il volto del Signore, che nella sua carne umana ha sperimentato l’indifferenza e la solitudine a cui spesso condanniamo i più poveri, sia nei Paesi in via di sviluppo, sia nelle società benestanti. Ogni bambino non nato, ma condannato ingiustamente ad essere abortito, ha il volto di Gesù Cristo, ha il volto del Signore, che prima ancora di nascere, e poi appena nato ha sperimentato il rifiuto del mondo. E ogni anziano, e – ho parlato del bambino: andiamo agli anziani, altro punto! E ogni anziano, anche se infermo o alla fine dei suoi giorni, porta in sé il volto di Cristo. Non si possono scartare, come ci propone la “cultura dello scarto”! Non si possono scartare!

  1. Il terzo aspetto è un mandato: siate testimoni e diffusori di questa “cultura della vita”. Il vostro essere cattolici comporta una maggiore responsabilità: anzitutto verso voi stessi, per l’impegno di coerenza con la vocazione cristiana; e poi verso la cultura contemporanea, per contribuire a riconoscere nella vita umana la dimensione trascendente, l’impronta dell’opera creatrice di Dio, fin dal primo istante del suo concepimento. È questo un impegno di nuova evangelizzazione che richiede spesso di andare controcorrente, pagando di persona. Il Signore conta anche su di voi per diffondere il “vangelo della vita”.

In questa prospettiva i reparti ospedalieri di ginecologia sono luoghi privilegiati di testimonianza e di evangelizzazione, perché là dove la Chiesa si fa «veicolo della presenza del Dio» vivente, diventa al tempo stesso «strumento di una vera umanizzazione dell’uomo e del mondo» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione, 9). Maturando la consapevolezza che al centro dell’attività medica e assistenziale c’è la persona umana nella condizione di fragilità, la struttura sanitaria diventa «luogo in cui la relazione di cura non è mestiere – la vostra relazione di cura non è mestiere – ma missione; dove la carità del Buon Samaritano è la prima cattedra e il volto dell’uomo sofferente, il Volto stesso di Cristo» (Benedetto XVI, Discorso all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, 3 maggio 2012).

Cari amici medici, voi che siete chiamati a occuparvi della vita umana nella sua fase iniziale, ricordate a tutti, con i fatti e con le parole, che questa è sempre, in tutte le sue fasi e ad ogni età, sacra ed è sempre di qualità. E non per un discorso di fede – no, no – ma di ragione, per un discorso di scienza! Non esiste una vita umana più sacra di un’altra, come non esiste una vita umana qualitativamente più significativa di un’altra. La credibilità di un sistema sanitario non si misura solo per l’efficienza, ma soprattutto per l’attenzione e l’amore verso le persone, la cui vita sempre è sacra e inviolabile.

Non tralasciate mai di pregare il Signore e la Vergine Maria per avere la forza di compiere bene il vostro lavoro e testimoniare con coraggio – con coraggio! Oggi ci vuole coraggio – testimoniare con coraggio il “vangelo della vita”! Grazie tante.

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL CONVEGNO COMMEMORATIVO DELL’ASSOCIAZIONE MEDICI CATTOLICI ITALIANI,  IN OCCASIONE DEL 70° ANNIVERSARIO DI FONDAZIONE

Aula Paolo VI, Sabato 15 novembre 2014

Vi ringrazio della presenza e anche per l’augurio: il Signore mi conceda vita e salute! Ma questo dipende anche dai medici, che aiutino il Signore! In particolare, voglio salutare l’Assistente ecclesiastico, Mons. Edoardo Menichelli, il Cardinale Tettamanzi, che è stato il vostro primo assistente, e anche un pensiero al Cardinale Fiorenzo Angelini, che per decenni ha seguito la vita dell’Associazione e che è tanto ammalato e che si è un po’ ripreso in questi giorni; come pure ringrazio il Presidente, anche per quel bell’augurio, grazie.

Non c’è dubbio che, ai nostri giorni, a motivo dei progressi scientifici e tecnici, sono notevolmente aumentate le possibilità di guarigione fisica; e tuttavia, per alcuni aspetti sembra diminuire la capacità di “prendersi cura” della persona, soprattutto quando è sofferente, fragile e indifesa. In effetti, le conquiste della scienza e della medicina possono contribuire al miglioramento della vita umana nella misura in cui non si allontanano dalla radice etica di tali discipline. Per questa ragione, voi medici cattolici vi impegnate a vivere la vostra professione come una missione umana e spirituale, come un vero e proprio apostolato laicale.

L’attenzione alla vita umana, particolarmente a quella maggiormente in difficoltà, cioè all’ammalato, all’anziano, al bambino, coinvolge profondamente la missione della Chiesa. Essa si sente chiamata anche a partecipare al dibattito che ha per oggetto la vita umana, presentando la propria proposta fondata sul Vangelo. Da molte parti, la qualità della vita è legata prevalentemente alle possibilità economiche, al “benessere”, alla bellezza e al godimento della vita fisica, dimenticando altre dimensioni più profonde – relazionali, spirituali e religiose – dell’esistenza. In realtà, alla luce della fede e della retta ragione, la vita umana è sempre sacra e sempre “di qualità”. Non esiste una vita umana più sacra di un’altra: ogni vita umana è sacra! Come non c’è una vita umana qualitativamente più significativa di un’altra, solo in virtù di mezzi, diritti, opportunità economiche e sociali maggiori.

Questo è ciò che voi, medici cattolici, cercate di affermare, prima di tutto con il vostro stile professionale. La vostra opera vuole testimoniare con la parola e con l’esempio che la vita umana è sempre sacra, valida ed inviolabile, e come tale va amata, difesa e curata. Questa vostra professionalità, arricchita con lo spirito di fede, è un motivo in più per collaborare con quanti – anche a partire da differenti prospettive religiose o di pensiero – riconoscono la dignità della persona umana quale criterio della loro attività. Infatti, se il giuramento di Ippocrate vi impegna ad essere sempre servitori della vita, il Vangelo vi spinge oltre: ad amarla sempre e comunque, soprattutto quando necessita di particolari attenzioni e cure. Così hanno fatto i componenti della vostra Associazione nel corso di settant’anni di benemerita attività. Vi esorto a proseguire con umiltà e fiducia su questa strada, sforzandovi di perseguire le vostre finalità statutarie che recepiscono l’insegnamento del Magistero della Chiesa nel campo medico-morale.

Il pensiero dominante propone a volte una “falsa compassione”: quella che ritiene sia un aiuto alla donna favorire l’aborto, un atto di dignità procurare l’eutanasia, una conquista scientifica “produrre” un figlio considerato come un diritto invece di accoglierlo come dono; o usare vite umane come cavie di laboratorio per salvarne presumibilmente altre. La compassione evangelica invece è quella che accompagna nel momento del bisogno, cioè quella del Buon Samaritano, che “vede”, “ha compassione”, si avvicina e offre aiuto concreto (cfr Lc 10,33). La vostra missione di medici vi mette a quotidiano contatto con tante forme di sofferenza: vi incoraggio a farvene carico come “buoni samaritani”, avendo cura in modo particolare degli anziani, degli infermi e dei disabili. La fedeltà al Vangelo della vita e al rispetto di essa come dono di Dio, a volte richiede scelte coraggiose e controcorrente che, in particolari circostanze, possono giungere all’obiezione di coscienza. E a tante conseguenze sociali che tale fedeltà comporta. Noi stiamo vivendo un tempo di sperimentazioni con la vita. Ma uno sperimentare male. Fare figli invece di accoglierli come dono, come ho detto. Giocare con la vita. Siate attenti, perché questo è un peccato contro il Creatore: contro Dio Creatore, che ha creato le cose così. Quando tante volte nella mia vita di sacerdote ho sentito obiezioni. “Ma, dimmi, perché la Chiesa si oppone all’aborto, per esempio? E’ un problema religioso?” – “No, no. Non è un problema religioso” – “E’ un problema filosofico?” – “No, non è un problema filosofico”. E’ un problema scientifico, perché lì c’è una vita umana e non è lecito fare fuori una vita umana per risolvere un problema. “Ma no, il pensiero moderno…” – “Ma, senti, nel pensiero antico e nel pensiero moderno, la parola uccidere significa lo stesso!”. Lo stesso vale per l’eutanasia: tutti sappiamo che con tanti anziani, in questa cultura dello scarto, si fa questa eutanasia nascosta. Ma, anche c’è l’altra. E questo è dire a Dio: “No, la fine della vita la faccio io, come io voglio”. Peccato contro Dio Creatore. Pensate bene a questo.

Vi auguro che i settant’anni di vita della vostra Associazione stimolino un ulteriore cammino di crescita e di maturazione. Possiate collaborare in modo costruttivo con tutte le persone e le istituzioni che con voi condividono l’amore alla vita e si adoperano per servirla nella sua dignità, sacralità e inviolabilità. San Camillo de Lellis, nel suggerire il metodo più efficace nella cura dell’ammalato, diceva semplicemente: «Mettete più cuore in quelle mani». Mettete più cuore in quelle mani. È questo anche il mio auspicio. La Vergine Santa, la Salus infirmorum, sostenga i propositi con i quali intendete proseguire la vostra azione. Vi chiedo per favore di pregare per me e di cuore vi benedico. Grazie.

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI PARTECIPANTI AL MEETING REGIONALE EUROPEO  DELLA “WORLD MEDICAL ASSOCIATION”
SULLE QUESTIONI DEL “FINE-VITA”

Dal Vaticano, 7 novembre 2017

Al Venerato Fratello
Mons. Vincenzo Paglia
Presidente della Pontificia Accademia per la Vita

Invio il mio cordiale saluto a Lei e a tutti i partecipanti al Meeting Regionale Europeo della World Medical Association sulle questioni del cosiddetto “fine-vita”, organizzato in Vaticano unitamente alla Pontificia Accademia per la Vita.

Il vostro incontro si concentrerà sulle domande che riguardano la fine della vita terrena. Sono domande che hanno sempre interpellato l’umanità, ma oggi assumono forme nuove per l’evoluzione delle conoscenze e degli strumenti tecnici resi disponibili dall’ingegno umano. La medicina ha infatti sviluppato una sempre maggiore capacità terapeutica, che ha permesso di sconfiggere molte malattie, di migliorare la salute e prolungare il tempo della vita. Essa ha dunque svolto un ruolo molto positivo. D’altra parte, oggi è anche possibile protrarre la vita in condizioni che in passato non si potevano neanche immaginare. Gli interventi sul corpo umano diventano sempre più efficaci, ma non sempre sono risolutivi: possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute. Occorre quindi un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona.

Il Papa Pio XII, in un memorabile discorso rivolto 60 anni fa ad anestesisti e rianimatori, affermò che non c’è obbligo di impiegare sempre tutti i mezzi terapeutici potenzialmente disponibili e che, in casi ben determinati, è lecito astenersene (cfr Acta Apostolicae Sedis XLIX [1957],1027-1033). È dunque moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito “proporzionalità delle cure” (cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia, 5 maggio 1980, IV: Acta Apostolicae Sedis LXXII [1980], 542-552). L’aspetto peculiare di tale criterio è che prende in considerazione «il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali» (ibid.). Consente quindi di giungere a una decisione che si qualifica moralmente come rinuncia all’“accanimento terapeutico”.

È una scelta che assume responsabilmente il limite della condizione umana mortale, nel momento in cui prende atto di non poterlo più contrastare. «Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire», come specifica il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2278). Questa differenza di prospettiva restituisce umanità all’accompagnamento del morire, senza aprire giustificazioni alla soppressione del vivere. Vediamo bene, infatti, che non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte.

Certo, quando ci immergiamo nella concretezza delle congiunture drammatiche e nella pratica clinica, i fattori che entrano in gioco sono spesso difficili da valutare. Per stabilire se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente proporzionato non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale. Occorre un attento discernimento, che consideri l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. La dimensione personale e relazionale della vita – e del morire stesso, che è pur sempre un momento estremo del vivere – deve avere, nella cura e nell’accompagnamento del malato, uno spazio adeguato alla dignità dell’essere umano. In questo percorso la persona malata riveste il ruolo principale. Lo dice con chiarezza il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità» (ibid.). È anzitutto lui che ha titolo, ovviamente in dialogo con i medici, di valutare i trattamenti che gli vengono proposti e giudicare sulla loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta, rendendone doverosa la rinuncia qualora tale proporzionalità fosse riconosciuta mancante. È una valutazione non facile nell’odierna attività medica, in cui la relazione terapeutica si fa sempre più frammentata e l’atto medico deve assumere molteplici mediazioni, richieste dal contesto tecnologico e organizzativo.

Va poi notato il fatto che questi processi valutativi sono sottoposti al condizionamento del crescente divario di opportunità, favorito dall’azione combinata della potenza tecnoscientifica e degli interessi economici. Trattamenti progressivamente più sofisticati e costosi sono accessibili a fasce sempre più ristrette e privilegiate di persone e di popolazioni, ponendo serie domande sulla sostenibilità dei servizi sanitari. Una tendenza per così dire sistemica all’incremento dell’ineguaglianza terapeutica. Essa è ben visibile a livello globale, soprattutto comparando i diversi continenti. Ma è presente anche all’interno dei Paesi più ricchi, dove l’accesso alle cure rischia di dipendere più dalla disponibilità economica delle persone che dalle effettive esigenze di cura.

Nella complessità determinata dall’incidenza di questi diversi fattori sulla pratica clinica, ma anche sulla cultura della medicina in generale, occorre dunque tenere in assoluta evidenza il comandamento supremo della prossimità responsabile, come chiaramente appare nella pagina evangelica del Samaritano (cfr Luca 10, 25-37). Si potrebbe dire che l’imperativo categorico è quello di non abbandonare mai il malato. L’angoscia della condizione che ci porta sulla soglia del limite umano supremo, e le scelte difficili che occorre assumere, ci espongono alla tentazione di sottrarci alla relazione. Ma questo è il luogo in cui ci vengono chiesti amore e vicinanza, più di ogni altra cosa, riconoscendo il limite che tutti ci accumuna e proprio lì rendendoci solidali. Ciascuno dia amore nel modo che gli è proprio: come padre o madre, figlio o figlia, fratello o sorella, medico o infermiere. Ma lo dia! E se sappiamo che della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione, della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura: senza abbreviare noi stessi la sua vita, ma anche senza accanirci inutilmente contro la sua morte. In questa linea si muove la medicina palliativa. Essa riveste una grande importanza anche sul piano culturale, impegnandosi a combattere tutto ciò che rende il morire più angoscioso e sofferto, ossia il dolore e la solitudine.

In seno alle società democratiche, argomenti delicati come questi vanno affrontati con pacatezza: in modo serio e riflessivo, e ben disposti a trovare soluzioni – anche normative – il più possibile condivise. Da una parte, infatti, occorre tenere conto della diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose, in un clima di reciproco ascolto e accoglienza. D’altra parte lo Stato non può rinunciare a tutelare tutti i soggetti coinvolti, difendendo la fondamentale uguaglianza per cui ciascuno è riconosciuto dal diritto come essere umano che vive insieme agli altri in società. Una particolare attenzione va riservata ai più deboli, che non possono far valere da soli i propri interessi. Se questo nucleo di valori essenziali alla convivenza viene meno, cade anche la possibilità di intendersi su quel riconoscimento dell’altro che è presupposto di ogni dialogo e della stessa vita associata. Anche la legislazione in campo medico e sanitario richiede questa ampia visione e uno sguardo complessivo su cosa maggiormente promuova il bene comune nelle situazioni concrete.

Nella speranza che queste riflessioni possano esservi di aiuto, vi auguro di cuore che il vostro incontro si svolga in un clima sereno e costruttivo; che possiate individuare le vie più adeguate per affrontare queste delicate questioni, in vista del bene di tutti coloro che incontrate e con cui collaborate nella vostra esigente professione.

Il Signore vi benedica e la Madonna vi protegga.

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALLA PLENARIA DEL PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA CULTURA

Sala del Concistoro, Sabato 18 novembre 2017

Cari fratelli e sorelle,

vi do il benvenuto e ringrazio il Cardinale Gianfranco Ravasi per il suo saluto e l’introduzione. Questa vostra Assemblea Plenaria ha scelto come tema la questione antropologica, proponendosi di comprendere le linee future di sviluppo della scienza e della tecnica. Tra i tanti possibili argomenti di discussione, la vostra attenzione si è concentrata particolarmente su tre soggetti.

In primo luogo, la medicina e la genetica, che ci permettono di guardare dentro la struttura più intima dell’essere umano e addirittura di intervenirvi per modificarla. Esse ci rendono capaci di debellare malattie ritenute inguaribili fino a poco tempo fa; ma aprono anche la possibilità di determinare gli esseri umani “programmandone”, per così dire, alcune qualità.

In secondo luogo, le neuroscienze offrono sempre maggiori informazioni sul funzionamento del cervello umano. Tramite esse, realtà fondamentali dell’antropologia cristiana come l’anima, la coscienza di sé, la libertà appaiono adesso sotto una luce inedita e possono essere persino da alcuni messi seriamente in discussione.

Infine, i progressi incredibili delle macchine autonome e pensanti, che sono già in parte diventate componenti della nostra vita quotidiana, ci portano a riflettere su ciò che è specificamente umano e ci rende diversi dalle macchine.

Tutti questi sviluppi scientifici e tecnici inducono alcuni a pensare che ci troviamo in un momento singolare della storia dell’umanità, quasi all’alba di una nuova era e alla nascita di un nuovo essere umano, superiore a quello che abbiamo conosciuto finora.

Sono in effetti grandi e gravi gli interrogativi e le questioni che ci troviamo ad affrontare. Essi sono stati in parte anticipati dalla letteratura e dai film di fantascienza, fattisi eco di paure e di attese degli uomini. Per questo, la Chiesa, che segue con attenzione le gioie e le speranze, le angosce e le paure degli uomini del nostro tempo, vuole porre la persona umana e le questioni che la riguardano al centro delle proprie riflessioni.

La domanda sull’essere umano: «Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi?» (Sal 8,5) risuona nella Bibbia sin dalle sue prime pagine e ha accompagnato tutto il cammino di Israele e della Chiesa. A questa domanda la Bibbia stessa ha offerto una risposta antropologica che si delinea già nella Genesi e percorre tutta la Rivelazione, sviluppandosi attorno agli elementi fondamentali della relazione e della libertà. La relazione si dirama secondo una triplice dimensione: verso la materia, la terra e gli animali; verso la trascendenza divina; verso gli altri esseri umani. La libertà si esprime nell’autonomia – naturalmente relativa – e nelle scelte morali. Questo impianto fondamentale ha retto per secoli il pensiero di gran parte dell’umanità e conserva ancora oggi la sua validità. Ma, nello stesso tempo, oggi ci rendiamo conto che i grandi principi e i concetti fondamentali dell’antropologia sono non di rado messi in questione anche sulla base di una maggiore consapevolezza della complessità della condizione umana ed esigono un approfondimento ulteriore.

L’antropologia è l’orizzonte di autocomprensione in cui tutti ci muoviamo e determina anche la nostra concezione del mondo e le scelte esistenziali ed etiche. Ai nostri giorni, essa è diventata spesso un orizzonte fluido, mutevole, in virtù dei cambiamenti socio-economici, degli spostamenti di popolazioni e dei relativi confronti interculturali, ma anche del diffondersi di una cultura globale e, soprattutto, delle incredibili scoperte della scienza e della tecnica.

Come reagire a queste sfide? Anzitutto, dobbiamo esprimere la nostra gratitudine agli uomini e alle donne di scienza per i loro sforzi e per il loro impegno a favore dell’umanità. Questo apprezzamento delle scienze, che non sempre abbiamo saputo manifestare, trova il suo fondamento ultimo nel progetto di Dio che «ci ha scelti prima della creazione del mondo […] predestinandoci ad essere suoi figli adottivi» (Ef 1,3-5) e che ci ha affidato la cura del creato: «coltivare e custodire» la terra (cfr Gen 2,15). Proprio perché l’uomo è immagine e somiglianza di un Dio che ha creato il mondo per amore, la cura dell’intera creazione deve seguire la logica della gratuità e dell’amore, del servizio, e non quella del dominio e della prepotenza.

La scienza e la tecnologia ci hanno aiutato ad approfondire i confini della conoscenza della natura, e in particolare dell’essere umano. Ma esse da sole non bastano a dare tutte le risposte. Oggi ci rendiamo conto sempre di più che è necessario attingere ai tesori di sapienza conservati nelle tradizioni religiose, alla saggezza popolare, alla letteratura e alle arti, che toccano in profondità il mistero dell’esistenza umana, senza dimenticare, anzi riscoprendo quelli contenuti nella filosofia e nella teologia.

Come ho voluto affermare nell’Enciclica Laudato sì’: «Diventa attuale la necessità impellente dell’umanesimo, che fa appello ai diversi saperi […] per una visione più integrale e integrante» (n. 141), così da superare la tragica divisione tra le «due culture», quella umanistico-letteraria-teologica e quella scientifica, che conduce a un reciproco impoverimento, e incoraggiare un maggiore dialogo anche tra la Chiesa, comunità dei credenti, e la comunità scientifica.

La Chiesa, da parte sua, offre alcuni grandi principi per sostenere questo dialogo. Il primo è la centralità della persona umana, che va considerata un fine e non un mezzo. Essa deve porsi in relazione armonica con il creato, quindi, non come un despota sull’eredità di Dio, ma come un amorevole custode dell’opera del Creatore.

Il secondo principio che è necessario ricordare è quello della destinazione universale dei beni, che riguarda anche quelli della conoscenza e della tecnologia. Il progresso scientifico e tecnologico serve al bene di tutta l’umanità e i suoi benefici non possono andare a vantaggio soltanto di pochi. In tal modo, si eviterà che il futuro aggiunga nuove disuguaglianze basate sulla conoscenza, e aumenti il divario tra ricchi e poveri. Le grandi decisioni sull’orientamento della ricerca scientifica e gli investimenti su di essa vanno assunte dall’insieme della società e non dettate solo dalle regole del mercato o dall’interesse di pochi.

Infine, rimane sempre valido il principio che non tutto ciò che è tecnicamente possibile o fattibile è perciò stesso eticamente accettabile. La scienza, come qualsiasi altra attività umana, sa di avere dei limiti da rispettare per il bene dell’umanità stessa, e necessita di un senso di responsabilità etica. La vera misura del progresso, come ricordava il beato Paolo VI, è quello che mira al bene di ogni uomo e di tutto l’uomo.

Ringrazio tutti voi, Membri, Consultori e Collaboratori del Pontificio Consiglio della Cultura, perché svolgete un servizio prezioso. Invoco su di voi l’abbondanza delle benedizioni del Signore, e vi chiedo, per favore, di pregare per me. Grazie.

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL’ASSEMBLEA PLENARIA DELLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE

Sala Clementina, Venerdì 26 gennaio 2018

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio,
cari fratelli e sorelle,

sono lieto di potervi incontrare al termine della Sessione Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede. Ringrazio il Prefetto per la sua introduzione con cui ha riassunto le linee più importanti del vostro lavoro in questi ultimi due anni.

Esprimo il mio apprezzamento per il vostro delicato servizio, che risponde al particolare legame del vostro Dicastero col ministero del Successore di Pietro, il quale è chiamato a confermare i fratelli nella fede e la Chiesa nell’unità.

Vi ringrazio per il vostro impegno quotidiano di sostegno al magistero dei Vescovi, nella tutela della retta fede e della santità dei Sacramenti, in tutte le varie questioni che oggi richiedono un discernimento pastorale importante, come nell’esame dei casi relativi ai graviora delicta e delle domande di scioglimento del vincolo matrimoniale in favorem fidei.

Tutti questi compiti risultano ancora più attuali di fronte all’orizzonte, sempre più fluido e mutevole, che caratterizza l’autocomprensione dell’uomo di oggi e che influisce non di poco sulle sue scelte esistenziali ed etiche. L’uomo di oggi non sa più chi è e, quindi, fatica a riconoscere come agire bene.

In questo senso, appare decisivo il compito della vostra Congregazione nel richiamare la vocazione trascendente dell’uomo e l’inscindibile connessione della sua ragione con la verità e il bene, a cui introduce la fede in Gesù Cristo. Nulla come l’aprirsi della ragione alla luce che viene da Dio aiuta l’uomo a conoscere sé stesso e il disegno di Dio sul mondo.

Apprezzo dunque lo studio da voi intrapreso circa alcuni aspetti della salvezza cristiana, allo scopo di riaffermare il significato della redenzione, in riferimento alle odierne tendenze neo-pelagiane e neo-gnostiche. Tali tendenze sono espressioni di un individualismo che si affida alle proprie forze per salvarsi. Noi, invece, crediamo che la salvezza consista nella comunione con Cristo risorto che, grazie al dono del suo Spirito, ci ha introdotto in un nuovo ordine di relazioni con il Padre e tra gli uomini. Così possiamo unirci al Padre come figli nel Figlio e diventare un solo corpo in Colui che è «primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29).

Come non menzionare, poi, gli studi che state portando a compimento circa le implicazioni etiche di un’adeguata antropologia anche nel campo economico-finanziario. Solo una visione dell’uomo come persona, vale a dire come soggetto essenzialmente relazionale e connotato da una peculiare ed ampia razionalità, è in grado di agire in conformità con l’ordine oggettivo della morale. Il Magistero della Chiesa ha sempre ribadito con chiarezza, a questo riguardo, che «l’attività economica deve essere condotta secondo le leggi e i metodi propri dell’economia, ma nell’ambito dell’ordine morale» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 64).

Durante questa Sessione Plenaria avete approfondito anche alcune questioni delicate circa l’accompagnamento dei malati terminali. Al riguardo, il processo di secolarizzazione, assolutizzando i concetti di autodeterminazione e di autonomia, ha comportato in molti Paesi una crescita della richiesta di eutanasia come affermazione ideologica della volontà di potenza dell’uomo sulla vita. Ciò ha portato anche a considerare la volontaria interruzione dell’esistenza umana come una scelta di “civiltà”. È chiaro che laddove la vita vale non per la sua dignità, ma per la sua efficienza e per la sua produttività, tutto ciò diventa possibile. In questo scenario occorre ribadire che la vita umana, dal concepimento fino alla sua fine naturale, possiede una dignità che la rende intangibile.

Il dolore, la sofferenza, il senso della vita e della morte sono realtà che la mentalità contemporanea fatica ad affrontare con uno sguardo pieno di speranza. Eppure, senza una speranza affidabile che lo aiuti ad affrontare anche il dolore e la morte, l’uomo non riesce a vivere bene e a conservare una prospettiva fiduciosa davanti al suo futuro. È questo uno dei servizi che la Chiesa è chiamata a rendere all’uomo contemporaneo.

In questo senso, la vostra missione assume un volto eminentemente pastorale. Autentici pastori sono coloro che non abbandonano l’uomo a sé stesso, né lo lasciano in preda del suo disorientamento e dei suoi errori, ma con verità e misericordia lo riportano a ritrovare il suo volto autentico nel bene. Autenticamente pastorale è dunque ogni azione tesa a prendere per mano l’uomo, quando questi ha smarrito il senso della sua dignità e del suo destino, per condurlo con fiducia a riscoprire la paternità amorevole di Dio, il suo destino buono e le vie per costruire un mondo più umano. Questo è il grande compito che attende la vostra Congregazione ed ogni altra istituzione pastorale nella Chiesa.

Nella certezza della vostra dedizione a questo importante servizio, che è da sempre la via maestra della Chiesa, vi rinnovo la mia gratitudine ed esprimo a tutti voi la mia vicinanza, impartendovi di cuore la Benedizione Apostolica.

Lettera del Cardinale Segretario di Stato al Presidente della Pontificia Accademia per la Vita in occasione del Convegno sulle cure palliative (Roma, 28 febbraio – 1° marzo 2018),

 

Si è tenuto in quei giorni a Roma il Congresso internazionale dal titolo: “Palliative Care: everywhere & by Everyone. Palliative care in every region. Palliative care in every religion or belief”, organizzato dalla Pontificia Accademia per la Vita. In questa occasione è stato presentato ufficialmente il Progetto PAL-Life, ideato e realizzato dalla Pontificia Accademia per la Vita per la diffusione globale delle cure palliative. Durante il Congresso sono state affrontate diverse e importanti tematiche, quali il contributo delle cure palliative alla medicina, all’assistenza sanitaria e alla società, la diffusione delle cure palliative, l’impatto delle diverse fedi religiose e prospettive spirituali sulla cura del morente, le implicazioni politiche ed economiche delle cure palliative. L’obiettivo principale del Congresso e del Progetto PAL-Life è quello di promuovere il dialogo e la cooperazione tra i differenti attori coinvolti nell’esercizio e nella diffusione delle cure palliative e, attraverso ciò, tutelare la dignità del morente, facendosi carico della sua vulnerabilità.

Pubblichiamo di seguito la Lettera che il Cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin, ha inviato a S.E. Mons. Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita in occasione dell’apertura dei lavori del Convegno:

Eccellenza Reverendissima,

a nome del Santo Padre Francesco e mio personale, rivolgo un cordiale saluto a Lei, agli organizzatori e ai partecipanti al Convegno sulle Cure Palliative. Si tratta di argomenti che riguardano i momenti conclusivi della nostra vita terrena e che mettono l’essere umano a confronto con un limite che appare insuperabile per la libertà, suscitando a volte ribellione e angoscia. Per questo nella società odierna si cerca in molti modi di evitarlo e di rimuoverlo, trascurando di ascoltare l’ispirata indicazione del Salmo: «Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio» (89,12). Ci priviamo così della ricchezza che proprio nella finitezza si nasconde e di una occasione per maturare un modo più sensato di vivere, sul piano sia personale sia sociale.

Le cure palliative, invece, non assecondano questa rinuncia alla sapienza della finitezza, ed è qui un ulteriore motivo dell’importanza di queste tematiche. Esse indicano infatti una riscoperta della vocazione più profonda della medicina, che consiste prima di tutto nel prendersi cura: il suo compito è di curare sempre, anche se non sempre è possibile guarire. Certamente l’impresa medica si basa sull’impegno instancabile di acquisire nuove conoscenze e di sconfiggere un numero sempre maggiore di malattie. Ma le cure palliative attestano, all’interno della pratica clinica, la consapevolezza che il limite richiede non solo di essere combattuto e spostato, ma anche riconosciuto e accettato. E questo significa non abbandonare le persone malate, ma anzi stare loro vicino e accompagnarle nella difficile prova che si fa presente alla conclusione della vita. Quando tutte le risorse del “fare” sembrano esaurite, proprio allora emerge l’aspetto più importante nelle relazioni umane che è quello dell’“essere”: essere presenti, essere vicini, essere accoglienti. Questo comporta anche il condividere l’impotenza di chi giunge al punto estremo della vita. Allora il limite può cambiare significato: non più luogo di separazione e di solitudine, ma occasione di incontro e di comunione. La morte stessa viene introdotta in un orizzonte simbolico al cui interno può risaltare non tanto come il termine contro cui la vita si infrange e soccombe, quanto piuttosto come il compimento di un’esistenza gratuitamente ricevuta e amorevolmente condivisa.

La logica della cura richiama infatti quella dimensione di mutua dipendenza d’amore che emerge certo con particolare evidenza nei momenti di malattia e di sofferenza, soprattutto al termine della vita, ma che in realtà attraversa tutte le relazioni umane e anzi ne costituisce la più specifica caratteristica. «Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge» (Rm 13,8): così ci ammonisce e ci conforta l’Apostolo. Appare allora ragionevole gettare un ponte tra quella cura che si è ricevuta fin dall’inizio della vita e che ha consentito ad essa di dispiegarsi in tutto l’arco del suo svolgersi, e la cura da prestare responsabilmente agli altri, nel susseguirsi delle generazioni fino ad abbracciare l’intera famiglia umana. Per questa via può accendersi la scintilla che collega l’esperienza dell’amorevole condivisione della vita umana, fino al suo misterioso congedo, con l’annuncio evangelico che vede tutti come figli dello stesso Padre e riconosce in ciascuno la sua immagine inviolabile. Questo prezioso legame sta a presidio di una dignità, umana e teologale, che non cessa di vivere, neppure con la perdita della salute, del ruolo sociale e del controllo sul proprio corpo. Ecco allora che le cure palliative mostrano il loro valore non solo per la pratica medica – perché, anche quando agisce con efficacia realizzando guarigioni talvolta spettacolari, non si dimentichi di questo atteggiamento di fondo che sta alla radice di ogni relazione di cura –, ma anche più in generale per l’intera convivenza umana.

Il vostro programma di questi giorni mette bene in evidenza la molteplicità di dimensioni che entrano in gioco nella pratica delle cure palliative. Un compito che mobilita molte competenze, scientifiche e organizzative, relazionali e comunicative, includendo l’accompagnamento spirituale e la preghiera. Oltre alle diverse figure professionali, va sottolineata l’importanza della famiglia per questo percorso. Essa riveste un ruolo unico come luogo in cui la solidarietà tra le generazioni si presenta come costitutivo della comunicazione della vita e il reciproco aiuto si sperimenta anche nei momenti di sofferenza o di malattia. E proprio per questo, nelle fasi finali della vita, la rete familiare, per quanto fragile e disgregata possa risultare nel mondo odierno, costituisce pur sempre un elemento fondamentale. Sicuramente possiamo imparare molto su questo punto dalle culture in cui la coesione familiare, anche nei momenti di difficoltà, è tenuta in grande considerazione.

Un argomento molto attuale, per le cure palliative, è quello della terapia del dolore. Già Papa Pio XII aveva legittimato con chiarezza, distinguendola dall’eutanasia, la somministrazione di analgesici per alleviare dolori insopportabili non altrimenti trattabili, anche qualora, nella fase di morte imminente, fossero causa di un accorciamento della vita (cfr Acta Apostolicae Sedis XLIX [1957],129-147). Oggi, dopo molti anni di ricerca, l’accorciamento della vita non è più un effetto collaterale frequente, ma lo stesso interrogativo si ripropone con farmaci nuovi, che agiscono sullo stato di coscienza e rendono possibili diverse forme di sedazione. Il criterio etico non cambia, ma l’impiego di queste procedure richiede sempre un attento discernimento e molta prudenza. Esse sono infatti assai impegnative sia per gli ammalati, sia per i familiari, sia per i curanti: con la sedazione, soprattutto quando protratta e profonda, viene annullata quella dimensione relazionale e comunicativa che abbiamo visto essere cruciale nell’accompagnamento delle cure palliative. Essa risulta quindi sempre almeno in parte insoddisfacente, sicché va considerata come estremo rimedio, dopo aver esaminato e chiarito con attenzione le indicazioni.

La complessità e la delicatezza dei temi presenti nelle cure palliative chiedono di continuare la riflessione e di diffonderne la pratica per facilitarvi l’accesso: un compito in cui i credenti possono trovare compagni di strada in molte persone di buona volontà. Ed è significativo che in questa prospettiva siano presenti al vostro incontro rappresentanti di diverse religioni e di diverse culture in uno sforzo di approfondimento e in un impegno condiviso. Anche nella formazione degli operatori sanitari, di chi ha responsabilità pubbliche e nell’intera società è importante che questi sforzi siano portati avanti insieme.

Mentre raccomanda di pregare per il suo ministero, il Santo Padre invia di cuore a Lei, Eccellenza, e a tutti i partecipanti al convegno la Benedizione Apostolica. Unisco il mio personale augurio e mi confermo con sensi di distinto ossequio.

Dal Vaticano, 27 febbraio 2018

Cardinale Pietro Parolin
Segretario di Stato

“L’EUTANASIA NON E’ UNA SCELTA DI CIVILTÀ ”

Il Papa: dal concepimento fino alla fine naturale la vita umana è intangibile

 

Distrazione o scelta consapevolmente censoria? Sta di fatto che la stampa nazionale, tranne qualche eccezione, non mi risulta abbia fatto cenno all’intervento di venerdì scorso, 26 gennaio, di papa Francesco ai partecipanti alla plenaria della Congregazione della dottrina della fede. Il Papa nel suo breve discorso ha fatto riferimento

all’orizzonte, sempre più fluido e mutevole che caratterizza l’autocomprensione dell’uomo di oggi e che influisce non di poco sulle sue scelte esistenziali ed etiche”.

Ed è andato al centro di tale orizzonte, quando, con espressione quanto mai lapidaria, ha affermato che “l’uomo di oggi non sa più chi è e, quindi, fatica a riconoscere come agire bene”. Ed ha esplicitato ulteriormente la sua analisi, quando, parlando del processo di secolarizzazione, che caratterizza questo nostro tempo, ne ha visto il compimento nella “assolutizzazione dei concetti di autodeterminazione e di autonomia”.

Si tratta dunque di una considerazione antropologica, prima ancora che religiosa e teologica, che riguarda tutto l’umano, oggi sempre più attratto da tentazioni prometeiche che alimentano il suo delirio di onnipotenza e da una iperconcentrazione su se stesso e sui propri desideri, oggi fatti passare, frettolosamente e culturalmente , sotto il nobile termine di “diritti”.

Il Papa, poi, facendo alcune applicazioni di questo principio di individualismo radicale, ha posto un accento particolare su un tema specificamente bioetico, “l’accompagnamento dei malati terminali”. “Il processo di secolarizzazione – ha detto il Papa – ha comportato in molti Paesi una crescita della richiesta di eutanasia come affermazione ideologica della volontà di potenza dell’uomo sulla vita. Ciò ha portato anche a considerare la volontaria interruzione dell’esistenza umana come una scelta di ‘civiltà’ “. Questo esito, ha fatto capire il Papa, non sorprende, perché “laddove la vita vale non per la sua dignità , ma per la sua efficienza e per la sua produttività, tutto ciò diventa possibile”. E Papa Francesco ripete una dichiarazione che abbiamo sentito più volte anche sulla bocca dei Papi precedenti: “Occorre ribadire che la vita umana, dal concepimento fino alla sua fine naturale possiede una dignità che la rende intangibile”.

Alla luce di tale dichiarazione risulta evidente che “il dolore, la sofferenza, il senso della vita e della morte sono realtà che la mentalità contemporanea fatica ad affrontare con uno sguardo pieno di speranza”, eppure “senza una speranza affidabile che lo aiuti ad affrontare anche il dolore e la morte, l’uomo non riesce a vivere bene e a conservare una prospettiva fiduciosa davanti al suo futuro. E’ questo uno dei servizi che la Chiesa è chiamata a rendere all’uomo contemporaneo”. Il Papa ribadisce a questo punto la specifica missione della Chiesa, che è di favorire “ogni azione tesa a prendere per mano l’uomo, quando questi ha smarrito il senso della sua dignità e del suo destino, per condurlo con fiducia a riscoprire la paternità amorevole di Dio, il suo destino buono e le vie per costruire un mondo più umano”.

 

Le dichiarazioni di Papa Francesco aprono una pista di confronto con le componenti culturali oggi maggioritarie o comunque più influenti nel nostro occidente. La questione antropologica diventa il terreno principale di tale confronto.

Chi è l’uomo? E’ un individuo che può e deve fare della propria vita un suo esclusivo possesso, sul quale pretende il diritto di vita e di morte? O è un essere profondamente relazionale, la cui vita è intrecciata con le altre vite e, in ultima analisi, con Colui che costituisce la sorgente e quindi il fine della stessa vita? In altre parole: la vita umana è una mia proprietà, accesa da una mia decisione a vivere (e ciò legittimerebbe ogni mia scelta circa il destino della mia vita)? Oppure è un dono, che ho ricevuto da altri e/o da Altro, senza alcuna mia scelta? Un dono che richiede, a sua volta, di essere vissuto secondo la logica della relazione, dell’affido, del far posto all’altro, della riconoscenza, della gratuità, della dedizione…: perché dono chiama dono? Sono io il “padrone” della vita? O ne sono il “custode”? La risposta a tale alternativa condiziona pressoché l’intero paesaggio esistenziale dell’uomo: dall’economia alla giustizia, dalla attività legislativa e politica ai temi sociali, dalla affettività e dal matrimonio al tema delle migrazioni…

Oggi stiamo vivendo la “stagione dei diritti civili”, alla quale si sono aggregate e aggrappate, con lodevoli e scarse eccezioni, pressoché tutte le forze politiche, forse per il timore di perdere consensi: ma siamo proprio sicuri che si tratti di diritti, in ogni caso? Nei dibattiti mediatici la “stagione dei diritti” viene spesso enfaticamente esaltata come un traguardo del “progresso” che finalmente mette fine a secoli di “bigottismo cattolico” della passata tradizione del nostro popolo. Salvo poi, quando si è liberi di argomentare quotidianamente con la gente comune, a sentir rimpiangere e a esaltare i valori dei nostri genitori e dei nostri nonni, che hanno saputo affrontare le sfide del loro tempo (la guerra, la povertà, la ricostruzione post-bellica…) e i sacrifici inevitabili della vita con una attrezzatura valoriale formidabile, oggi impensabile e improponibile nella nostra fragile e liquida società. Oggi si sta smantellando il “bigottismo cattolico” o non stiamo assistendo allo smantellamento della grammatica antropologica fondamentale? Stiamo liberandoci dall’ “oscurantismo e dal medioevalismo cristiano”, considerato ferro vecchio da buttare, o non stiamo forse entrando, più o meno allegramente; nell’”oscurantismo nichilista”, che sta provocando smarrimenti, depressioni, perdita di speranza, sbandamenti esistenziali sempre più drammaticamente presenti nel nostro panorama sociale e culturale? La fuoriuscita dalla tradizione umanistica sta avvenendo a prezzo di un avvitamento narcisistico del soggetto umano su se stesso che porta alla distruzione dell’uomo stesso

C’è bisogno di una rinnovata e profonda riflessione su questi temi, da radicare in una visione integrale della persona umana. Non c’è bisogno di facili scorciatoie, frutto di “colonizzazioni ideologiche”, per usare un’espressione cara all’attuala Papa.

Don Alberto Franzini

(La Provincia, 2 febbraio 2018)

 

LA PERSONA NON APPARTIENE SOLAMENTE A SE STESSA

 

E’ indubbio che la recente approvazione da parte del nostro Parlamento delle DAT (Disposizioni anticipate di trattamento) e il rinvio del giudizio, da parte della Corte d’Assise di Milano, alla Corte costituzionale per stabilire il grado di responsabilità di Cappato nell’aiuto prestato a Fabiano Antoniani a raggiungere la Svizzera per far ricorso al suicidio assistito – il che è condannato dall’art. 580 del Codice penale, ritenuto però dal giudici di Milano passibile di incostituzionalità – ripropone non solo una accurata riflessione di carattere giuridico-costituzionale, nella quale non entro perché incompetente in materia, ma ripropone a tutto tondo il centro del problema, che deve stare a cuore a tutti. Esiste un diritto al suicidio? E il suicidio, basta che sia “assistito”, perché non sia più considerato tale? Il principio di autodeterminazione è così esteso da non aver bisogno di alcun limite, per cui tra le libertà fondamentali si deve necessariamente includere anche quella relativa a “come e quando morire”, da proteggere anche legislativamente?

Sono interrogativi che anche le recenti disposizioni di trattamento sul fine-vita sollevano. Mi sembra che, alla base anche delle ulteriori richieste che vengono da più parti per arrivare anche in Italia ad avere finalmente (!) una chiara normativa che legittimi, in alcuni casi, l’eutanasia e il suicidio assistito, ci sia la questione fondamentale: la vita umana è un bene disponibile o indisponibile? Per rispondere a questa fondamentale questione è necessario fare un passo ancor più radicale: la persona umana appartiene solamente a se stessa o appartiene anche a quella rete di relazioni (famiglia, amicizie, società…) nella quale ogni persona non solo ha ricevuto in dono la vita (per i credenti la vita è un grande dono di Dio; per chi non è credente la vita è stata comunque accesa dai propri genitori), ma ha potuto farla crescere e portarla alla sua piena maturazione? Insomma: l’individuo diventa persona solo grazie a se stesso, soddisfacendo i propri desideri soggettivi o anche grazie alle relazioni con gli altri? La libertà è sempre ed esclusivamente un atto solitario e individuale o può crescere e prosperare solo in un contesto solidale e quindi relazionale?

La visione che pare sottostare alle DAT – non è qui possibile elencare doviziosamente i punti critici della nuova legge – è comunque quella di una persona capace di pensarsi unicamente come detentore di un potere illimitato sulla vita e sulla morte. L’antropologia sottesa è quella di una radicale autoreferenzialità dell’io, la cui identità è data solamente dall’esercizio illimitato della propria autonomia personale, che arriva fino a metter le mani (è il caso di dire: fino a manomettere) quei momenti estremi – il nascere e il morire – che finora erano sottratti al proprio arbitrio, perché ritenuti “beni indisponibili”, che stanno alla base della dignità della persona e della stessa convivenza sociale. Sembra proprio che l’irruzione del materialismo nichilista e della cultura radicale e neoliberistica (e neolibertaria) degli anni ’70 del secolo scorso, grazie ai cospicui sostegni finanziari di alcune lobbies che hanno poi influenzato le classi politiche, abbia sostituito non solo l’umanesimo cristiano, che tanta parte ha avuto nella storia e nella cultura occidentale e non solo, ma anche l’umanesimo di Gramsci, di Rosselli, di Norberto Bobbio… Si tratta di quell’umanesimo sotteso alla nostra stessa Carta costituzionale, un umanesimo convintamente vissuto e condiviso dal nostro popolo, diviso politicamente, come è giusto sia in democrazia, ma unito su alcuni valori di fondo senza dei quali non è possibile costruire nessuna convivenza sociale: basti pensare qui al paesaggio umano di Peppone e don Camillo!

La cultura dell’autonomismo radicale ha finito per intaccare quasi tutte le componenti sociali e politiche del nostro Paese, comprese quelle formazioni che, per genesi storica e militanza attiva, erano state fortemente caratterizzate da una visione antisoggettivistica e solidaristica dell’uomo e della società, e che oggi hanno finito per accogliere un’antropologia individualistica e neoliberista del soggetto umano attraverso la stagione dei “diritti civili”: una dizione, quest’ultima, che avrebbe bisogno di una più seria e ponderata riflessione.

Ma perché l’individuo deve poter avere la radicale libertà di poter disporre della propria vita, quando l’intera trama, l’intera avventura della propria vita è profondamente correlata a quella degli altri? E proprio nel momento terminale, quando il dolore e le sofferenze diventano un peso difficilmente sopportabile, non rischiano le disposizioni soggettivistiche di rifiuto delle cure di isolare ulteriormente il malato, “staccandolo dalla spina” della sua famiglia e di coloro – in primo luogo i medici – abilitati, più che a sospendere le cure, ad intensificarle, come è proprio della professione medica, affinchè la persona sia accompagnata verso la morte con la massima dignità possibile, ossia attraverso le terapie del dolore, e non certo attraverso atti omissivi, sia pure richiesti dal paziente? L’avvicinarsi della morte è il momento supremo in cui la persona è chiamata ad evitare il più possibile di entrare nel tunnel drammatico della solitudine, che si può vincere solo con un abbandono più fiduciario a coloro che le sono stati vicini nel cammino della vita e con una relazione di cura più ricca e più intensa, di fronte alla quale le dichiarazioni anticipate, proprio perché “anticipate”, rivelano tutta la loro inadeguatezza e la loro astrattezza. Proprio la riflessione sul “fine-vita” dovrebbe condurre non solo ad attrezzare al meglio le cure mediche, non solo a “chiudere la partita della vita” con una decisione di morte anticipata, ma ad “anticipare” e quindi ad approfondire, durante l’intero corso della vita, le motivazioni esistenziali ed essenziali sul senso complessivo del vivere umano, strutturalmente aperto al mistero e alla speranza di una prospettiva che “va oltre la morte”, di una partita che non può sinistramente finire nel buio di un sepolcro, dopo aver assaporato le luci, i sussulti, le gioie, le passioni di un’avventura così significativa, qual è l’avventura umana.

Don Alberto Franzini

(La Provincia, 26 febbraio 2018)